Di cosa parliamo quando parliamo di gender?

di Realdi Giovanni

Tre esercizi utili

Cocchi che corrono sul mare

Pedalo, quasi in ritardo, verso la scuola. Le fameliche locandine delle edicole «denunciano» come una famiglia su sette, in città, possegga armi da fuoco. Nella testa, suoni e immagini si sovrappongono: la radio mattutina che prova a spiegare le leggi danesi sulla confisca di beni ai migranti; la rivista che riporta l’inchiesta dello Spiegel sulla notte violenta del capodanno di Colonia…

Questi fatti esistono, dunque se ne può parlare: il linguaggio si piega sull’esistenza per darle un qualche contorno, per ricostruirne la tridimensionalità all’interno di una cornice di senso. Partire da un fatto, anche minimo, per poi valutarne le sfumature e le implicazioni e quindi ottenere informazioni per agire, volendo.

Eppure accade anche il contrario: possiamo parlare di ciò che non esiste, come la chimera o i «cocchi che corrono sul mare», secondo l’esempio del sofista Gorgia, che in questo modo ribadiva la separazione tra essere e linguaggio, e con essa l’impossibilità dell’uomo di avere la certezza di pensare la verità. Curioso, ma non troppo: un mio caro studente di terza, leggendo le pagine dedicate a quel filosofo greco, pensava si trattasse di noci diàcocco in libera uscita sulle distese marine. Che un antico ellenico immaginasse carrozze trainate da cavalli e non frutti esotici non è una cosa ovvia. E ognuno, con il linguaggio, costruisce la propria realtà.

Uno spettro s’aggira per l’Europa

Così, mentre l’Europa deve (vuole?) affrontare una delle più ingenti crisi umanitarie degli ultimi anni e, correlata ad essa, la discussione sui limiti da imporre allo stato di diritto in nome della sicurezza, in Italia ci dividiamo tra famiglie arcobaleno e family day. Ma questa non vuole essere un’accusa di provincialismo; non si tratta di piangere sulla nostra patria piccineria, perché in fondo si tratta pur sempre di un dibattito pubblico, o quasi, e il dibattito esiste se la democrazia gode ancora di una certa salute. Il problema potrebbe piuttosto consistere nella qualità di questo dibattito.

Ben prima, infatti, che s’iniziasse a parlare della «legge sulle unioni civili» (il cosiddetto ddl Cirinnà), il dibattito è stato infatti condizionato da uno spettro che porta il nome di «ideologia del gender». Chi, come me, abbia la ventura di lavorare nella scuola cattolica, sa che da almeno due anni a questa parte sono arrivati precisi ordini di scuderia al proposito, amplificati e giustificati in itinere da decreti comunali su liste di libri vietati o interpretazioni deliranti di presunte indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se l’allegro studente legge nei «cocchi» di Gorgia delle noci difficili da rompere, un certo numero di italiani, impaurito, se non terrorizzato, inizia a leggere ovunque intorno a sé i segnali della corruzione dei costumi. Il tempo per pensare a ciò di cui si sta parlando non esiste, a quanto pare, e dunque – invece di sospendere il giudizio – si comincia a ragionare come se l’oggetto della discussione fosse reale. E così, tale oggetto si fa reale, inizia a esistere, prende vita, come il mostro di Mary Shelley. E, siccome è vero ed esistente, persino il documento di sintesi del recente Sinodo dei vescovi della Chiesa Cattolica lo mette nero su bianco, nella relazione finale (punto 8): « Una sfida culturale odierna di grande rilievo emerge da quell’ideologia del «gender»che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna». Sì che loro, i vescovi, tempo per pensare ne avrebbero.

Il Golem: tre esercizi

La domanda può però arrivare dal «basso»; la questione può essere posta, tra il serio e il faceto, dagli studenti. E allora, come affrontarla e fare, di un fantasma, carne e sangue? Qui, più che il Frankenstein, va evocato il Golem di Meyrink, un essere d’argilla, un servo, costruito apposta per esser utile nei lavori pesanti o per difendere; un ròbot, avrebbero detto in Boemia. Ciò che creeremo, ci servirà per affrontare meglio la realtà, e nello stesso tempo per difenderci dal «sentito dire». La questione infatti si fa filosofica e, nello stesso momento, pedagogica, quando focalizziamo la domanda principale: «Di che cosa parliamo, quando parliamo di ideologia del gender?».

Qui sta il primo esercizio: tornare a dare alle parole il peso posseduto, e poi scordato. La domanda, infatti, non è retorica, non presuppone cioè una risposta ovvia (del tipo: non stiamo parlando di nulla perché tale ideologia non esiste). Si tratta di partire da una socratica ignoranza da condividere: davvero, non so che cosa sia, e ora potremmo capirlo insieme. La consistenza, o l’inconsistenza, dell’oggetto non possono essere suggerite a priori, e nemmeno al termine del percorso: il risultato, come ricorda Marianella Sclavi, è la parte più effimera della questione. Il cuore sta nel percorsoàda fare, e da fare insieme, perché va sempre ricordato, metodologicamente, che i ragazzi in età scolare (parliamo di classi delle superiori) sono spugna e cartina tornasole della società. E tutto il mio eventuale carico ideologico personale nulla può contro convinzioni, o spesso misconceptions, che capitano nella testa e nel cuore di queste persone. Se, rabbiosamente, andrò a negare la consistenza dell’ideologia del gender, ebbene otterrò l’effetto opposto, confermando la tesi: sarà infatti la mia rabbia, o impazienza, a passare. Ognuno se ne andrà con quanto aveva con sé all’inizio dell’ora.

Dunque, di che cosa si parla quando parliamo di ideologia? E poi: di gender? Ecco che può venire impiegato con profitto il bagaglio immenso di dati che è la rete Web. Si può partire cercando l’intera locuzione – e quindi toccando con mano la miriade di opinioni e di contro-opinioni che è fiorita negli ultimi tempi, e provando a creare una gerarchia tra le fonti, tra l’attendibilità dei siti e dei commentatori, tra i linguaggi dei commentatori. In seconda battuta, è possibile scindere l’espressione e allargare la visuale sulle ideologie dal punto di vista storico, sull’uso descrittivo o valutativo del termine; per poi porsi il problema, infine, della traduzione italiana di gender; della differenza tra sesso, genere e orientamento sessuale; del contributo dei gender studies e così via.

Dalle parole alle posizioni

Questa prima fase potrebbe essere caotica e spontanea. Può costituire un modo per chiarire i termini e insieme prendere dimestichezza con i mezzi attraverso cui reperire le informazioni. Il gruppo classe può provare a dare consistenza all’espressione, in una discussione collettiva, in cui qualcuno abbia lo specifico compito di schematizzare il materiale che emerge.

Il secondo passaggio/esercizio potrebbe fare leva sulla naturale predisposizione dei ragazzi alla «polemica». Ciascuno di loro si sarà probabilmente fatto un’idea della questione, anche pallida: ora che sappiamo dove cercare e che cosa evitare, possiamo dividerci in due gruppi. Da un lato coloro che cercheranno motivazioni e argomentazioni a favore dell’esistenza dell’oggetto; dall’altro, coloro che la negheranno. Questa fase è ancora descrivibile come «ricerca del materiale», ma in questo caso si tratta di annunciare esplicitamente l’intento dialettico dell’operazione. Si chiama alle armi (logiche), si innesca il conflitto, dimensione sana ma che si vorrebbe espulsa dalla scuola: non è più curiosità libera e un poco svagata, ma l’indagine si colora emotivamente di agonismo, di sfida. Qui in ballo c’è da aver ragione sull’avversario.

«Avere ragione». Non c’è nulla di più entusiasmante, talvolta, in un’aula, di poter trionfare sulle opinioni altrui. L’adrenalina si percepisce sensibilmente, le amicizie traballano, i banchi scompaiono per lasciar spazio all’arena dei gladiatori. E questo avviene se il clima non risulta congelato da un docente che «ha sempre ragione lui», se cioè le ragazze e i ragazzi sono in qualche modo abituati ad averla vinta, qualche volta. Non sempre, perché a nessuno piace vincere facile. Ma nemmeno mai, ma non perché davvero il prof trionfi sempre, ma al contrario per il motivo che un adulto che abbia questa pretesa, dopo un po’ non viene più calcolato. Lo si lascia parlare.

Rebus e parole incrociate

Il materiale raccolto in questo momento passionale andrebbe saggiamente organizzato in argomentazioni e cioè considerato per la propria potenzialità di convincere gli altri. Anche questo esercizio risulterà più complicato del previsto. Perché? Mi si perdonerà ilàgioco di parole, ma la ragione sta proprio nel fatto che alunne e alunni sono avvezzi ad esercizi e non a problemi. Mi spiego: un problema, dice Dario Antiseri, «è una domanda per la quale – chi se la pone (scienziato o studente) – non ha ancora una risposta. Un esercizio è una domanda per la quale chi se la pone ha già una risposta (la teoria conosciuta o appresa sul libro di testo), che va semplicemente applicata». Di esercizi è piena la scuola, schiacciata com’è sulla misurazione della quantità di sapere verificabile, traducibile in quei numeri che sono i voti. Quindi ci sarà un poco di smarrimento di fronte a una domanda di cui nessuno ha una soluzione; la fatica dell’insegnante facilitatore sarà quella di presentare l’indagine non come un mistero, ma come un rebus, proprio come quelli della Settimana Enigmistica: la risposta, vi assicuro, esiste. Ma è nascosta a me come a voi.

Predisposte le batterie di contraerea, affilate le baionette, caricate le colubrine (polemos è «guerra») si scenderà in battaglia. Qui la fatica più grande sarà la gestione del tempo, perché questo terzo esercizio ha il difficile compito di trasformare una sfida dialettica, in cui cioè lo scopo è aver la ragione dalla propria, in un processo dialogico, nel quale invece lo scopo è arrivare a una definizione comune. Perché il tempo? Per la sua glaciale imparzialità. Esistono in rete veri e propri protocolli per le cosiddette «palestre di botta e risposta», esercizi di discussione normati e razionalizzati, adattabili a qualunque argomento (tra i più validi, in italiano, v’èàquello curato dal dott. De Conti dell’ateneo patavino). Una delle caratteristiche principali di questi schemi di dialogo è costituita dalla consapevolezza (chiara e condivisa fin dall’inizio) che l’esposizione deve essere sottoposta a una tempistica chiara – cioè non si parla per ore, né all’infinito – e a una rigida alternanza tra le posizioni. Quando lo si applica, si prende atto di una dinamica quotidiana assai invadente (latina? Non certo anglosassone): l’incapacità di lasciar terminare il discorso, spesso anche solo la frase, al nostro interlocutore.

Che cosa nascerà alla fine dell’esposizione delle tesi, delle argomentazioni, delle contro proposte? Non possiamo saperlo. Il gruppo potrebbe essere invitato a dividersi nuovamente e fisicamente nello spazio dell’aula: alla mia destra coloro che, alla fine, pensano che l’oggetto esista, alla mia sinistra il viceversa. Si dirà – ed è vero – che, alla fine, questi esercizi valgono per qualunque argomento; si dirà che, alla fine, non avremo ottenuto alcuna certezza assoluta. E anche questo è vero. Ma se diamo credibilità all’ipotesi che sia il linguaggio a creare la realtà (o qualche suo tratto), questi esercizi di linguaggio, come parola e come scambio, porteranno alcuni a incontrare una realtà nuova, quella dell’affrontare le cose non sulla base della paura, ma con lo strumento della ragione.