A padre Carlo, con affetto

di Colombo Giovanni Ambrogio

Padre Carlo Maria Martini, prelevato all’improvviso nel dicembre 1979 da Giovanni Paolo II dall’Università Gregoriana e inviato a fare il vescovo nella diocesi più grande del mondo, ha fatto «suonare le campane» così bene che è diventato uno dei personaggi principali della vita della Chiesa nell’ultimo trentennio, un (quasi) papa, molto letto, molto ascoltato dai media (anche se non è mai stato, a differenza di Wojtyla, l’uomo delle folle e del gesto) e molto amato, come hanno dimostrato i duecentomila milanesi che si sono messi in fila nei giorni dei funerali per tributargli l’ultimo saluto e come testimonia, ancor oggi, a tre anni e mezzo di distanza, il continuo flusso di persone davanti alla sua tomba nel Duomo di Milano.

Leggere la parola, sottolineare la parola

Padre Carlo (noi giovani della «sua» Azione Cattolica lo chiamavano così, senza quegli altri titoli così mondani previsti dai costumi ecclesiastici) conosceva tante lingue ma ha dato il massimo di sé quando ha parlato il dialetto di Canaan, la terra di Gesù. E se una persona parla il dialetto di Gesù e si esprime con le sue parole, diventa straordinario e convincente. Cattura il cuore della gente e persuade. Il dialetto di Canaan lo hanno raccolto i vangeli. Padre Carlo, da fine biblista qual era, si è speso fino all’osso per farceli conoscere e amare. In principio la Parola è il titolo della sua più intensa lettera pastorale e ben sintetizza il cuore del suo magistero. «Leggi la Parola… sottolinea la Parola», quante volte l’ha ripetuto. La Parola che parla di Gesù è Gesù stesso e, come lui, incessantemente in moto, senza altro fine nel movimento che dare tutto sé stessa. Se ascoltata e «ruminata», suscita in noi le parole giuste per quest’epoca di alto sbandamento, le parole gocciolanti in grado di inzuppare e fecondare questa Terra di terra e sassi.

Un vento sottile che attraversa i varchi

Con le sue parole intorno alla Parola, padre Carlo mi ha cambiato Dio. Non più il Dio lombardo, cupo, controriformista, il Dio col vocione che produce l’inflazione del senso di colpa. Ormai Dio èàvento sottile e sua volontà la nostra liberazione: la partenza da tutti i varchi, l’apertura di tutte le gabbie. Ah, le gabbie… In padre Carlo ho visto da vicino la fatica di star dentro le tante costrizioni in cui s’infossa la vita della Chiesa cattolica d’Occidente, sia dal punto di vista morale sia dal punto di vista pastorale. Alla fatica si è presto aggiunta (metà degli anni Ottanta) anche la viva preoccupazione di non apparire l’anti-Papa, l’anti-Wojtyla, e di riuscire a sottrarsi al continuo controllo vaticano. In padre Carlo, nel suo bel corpo, mi pare di aver intravisto una dura lotta tra il vento spirituale che si faceva via via sempre più forte con il progredire degli anni – merito della lettura continua di quel libro di aria e inchiostro che è la Bibbia – e la rigidità fisica anch’essa sempre più accentuata nelle posture, nell’abbraccio, nella stretta di mano. Mi azzardo a leggere la sua stessa malattia parkinsoniana, con cui ha convissuto per oltre vent’anni, come il segno di una dinamica irrisolta: la spinta a far uscire il vento e la controspinta a non farlo, per non disobbedire a chissà quale autorità. Purtroppo alla fine il controllo estremo ha avuto il sopravvento e lui si è trovato rinchiuso dentro una corazza. Gli ultimi anni sono stati di grande sofferenza fisica e spirituale (come testimonia anche la sua ultima intervista al Corriere della Sera, «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni»).

Il Cristo sorridente

Padre Carlo ha finito la sua corsa terrena chiedendoci di procedere per una più grande scioltezza, per una più grande libertà di spirito, per una più grande creatività (vedi in particolare il libro intervista del 2007 Conversazioni notturne a Gerusalemme). Aveva infatti capito assai bene quant’è indispensabile alleggerire e, in tal senso, è riuscito a fare più di quanto lasciasse prevedere il suo carattere riservato, la sua estrazione alto borghese, la sua impostazione perfetta e il suo ruolo di «principe della Chiesa».

Adesso tocca a noi andare avanti ed entrare in quella terra che lui, dal suo personale Monte Nebo, aveva intravisto e indicato: il luogo dove scorrono il latte dell’amore e il miele del piacere, dove il cristianesimo smette di essere nemico del corpo e dei sensi e il Crocifisso diventa sorridente. Le Christ souriant! In un momento critico della miaàvita proprio padre Carlo mi suggerì di andare per qualche giorno all’Abbaye di Lérins, in Francia, davanti a Cannes. Era uno dei suoi luoghi di riposo. A Lérins vidi per la prima volta il Crocifisso sorridente. Il paradosso dei paradossi: stare in croce e nel contempo testimoniare la gioia della Pasqua. Quel crocifisso non l’ho più mollato, una sua riproduzione l’ho messa in camera da letto e la guardo ogni giorno. È la bussola che guidaài miei passi verso il lato solare del cristianesimo. Sento che in questa esplorazione non sono solo. Sento il calore di tanti. Sento anche lui, padre Carlo, più vivo che mai.

Giovanni Ambrogio Colombo
esponente della «Rosa Bianca»,
già consigliere comunale a Milano,
politico per passione