Si prega di rispedire al mittente

di Monini Francesco

Perché celebriamo i morti e non i nuovi nati? Per i personaggi illustri avanti già negli anni è già pronto il «coccodrillo». Quando è il momento, quando il grande spirito si spegne, basta aggiungere una data e si può andare in stampa.

Troppo comodo, direbbe quel geniaccio di Achille Campanile. Prendiamo Alessandro Manzoni con il suo 5 maggio. Eccolo che, mentre il povero Bonaparte si annoia a morte a Sant’Elena, lavora alacremente al suo solenne epitaffio. Prova l’attacco, lima gli aggettivi, prova il suono delle rime, e ci mette dentro le piramidi, il Manzanarre, il Reno… Scriverebbe Campanile: «Il grande Alessandro è seduto alla scrivania del suo spoglio studiolo, arriva trafelato il portiere di casa Manzoni, tenendo in mano un biglietto consegnatogli da un fattorino. «È urgente signore, viene dalla Gazzetta, chiedono se per caso riesce a scrivere due cartelle su quel Napoleone: è spirato giusto l’altro giorno». Manzoni licenzia il portiere. «Ma che devo dire al fattorino», chiede il portiere. «Dica di aspettare dieci minuti», risponde l’autore dei Promessi Sposi. Manzoni resta solo, apre furtivo il cassetto della scrivania e trova il manoscritto. Lo rilegge un paio di volte, cambia due virgole e richiama il portiere: «Ecco qua», e gli porge il 5 maggio».

Certo, la poesia non gli è venuta male, ma non gridiamo al capolavoro. Manzoni si è preso tutto il suo tempo. Ha aspettato che Napoleone combinasse tutto lo sconquasso che sappiamo. Ma così è troppo facile! Un vero capolavoro sarebbe stato scrivere la stessa identica poesia con una cinquantina d’anni di anticipo. Appena dopo il 15 agosto del 1769 quando ad Ajaccio, a casa Bonaparte, nasceva un anonimo settimino.

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Si può scherzare molto seriamente. Purtroppo non ho il genio di Achille Campanile. Eppure, in questo numero 100 dedicato alla speranza, mi piacerebbe dare a tutti una buona novella. Due fiocchi azzurri per due nuovi nati. Due persone diversissime, per natali, percorso di vita, cultura e tragitto politico. Mi piacerebbe scrivere che in questo grigio e affannoso 2015 sono nati Pietro Ingrao e Arturo Paoli, due bambini che faranno parlare di sé, due uomini che attraverseranno con coraggio, rigore e speranza il secolo che abbiamo davanti.

Peccato. Pietro Ingrao, appena centenario, e Arturo Paoli, di tre anni più vecchio, si sono spenti proprio quest’anno. Non sono stati dei vincitori, hanno entrambi scelto la causa dei vinti. Durante una lunga vita non hanno mai smesso di incontrare, dialogare, pensare, pregare, lottare. Hanno scritto libri illuminati e illuminanti (vi segnalo, fra i tanti, A. Paoli, Camminando s’apre cammino, Cittadella, 1994 e P. Ingrao, Volevo la luna, Einaudi, 2006).

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Cos’è peggio, la guerra o la fame? Sembra una di quelle domande che i bambini piccoli si divertono a fare agli adulti distratti.

Noi del nord del mondo siamo gli adulti: distratti, la pancia piena, lontani settant’anni dall’ultima guerra. Talmente lontani che quando ci raccontano dei nonni che scappavano dall’Italia della fame, della malaria e della pellagra, ci viene da sorridere. Va bene, sarà pure storia, ma ha il sapore di una favola davanti al focolare.

Non c’è più il focolare, c’è il barbecue. Al Brico si comprano legnetti tagliati tutti uguali e i sacchetti di carbonella. Al bar diamo un’occhiata al giornale, ma saltiamo il resto e andiamo allo sport. Certo, ne sentiamo parlare, ne parlano tutti, come fai a tapparti le orecchie? Ci sbattono in faccia quelle immagini tremende, ci pare di capire qualcosa ma non capiamo niente. Non abbiamo una idea concreta di cosa sia la guerra, la minima memoria di cosa sia la fame che ti divora, la bocca che perde denti e saliva.

Eppure, ci mancherebbe altro!, abbiamo le nostre idee: parliamo, discutiamo col vicino, alziamo la voce contro questi africani che arrivano senza essere invitati, e ci tolgono il nostro pane, ci rubano il lavoro, si prendono le nostre case…

Non sappiamo niente di niente, non conosciamo il dolore di ognuna di queste vite spezzate e che si sono messe in marcia verso un’incerta salvezza. Non conosciamo né la fame né la guerra. Non sappiamo rispondere ai bambini. Forse sappiamo solo questo, per un vago ricordo: non c’è un peggio, tra fame e guerra: sono peggio entrambe.

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Scappare dalla guerra o fuggire dalla fame non fa differenza.

E invece sì. Per «ridurre il danno», per sfoltire le fila, la vecchia Europa si è inventata due distinte tipologie di migranti. Lo ha detto frau Merkel, l’hanno ripetuto a pappagallo tutti gli altri capi di governo.

C’è chi costruisce muri, sarebbero i falchi. E ci sono le colombe, quelli che per realismo (non possiamo mica fucilarli!) o per bisogno di braccia fresche per le proprie fabbriche, propongono un’Europa semi-solidale, cioè solidale a metà.

I migranti vengono divisi in due grandi categorie. Se scappi da qualche guerra sei un potenziale rifugiato. Tra questi ci sono i siriani, particolarmente appetita dagli industriali tedeschi. Se invece scappi dalla miseria e dalla fame non hai nessuna possibilità di rimanere. Sei un semplice «migrante economico», come una lettera con l’indirizzo errato: «Rispedire al mittente!».

Per arrivare in Europa, per tentare quel viaggio allucinante, per cercare ancora speranza e vita, bisogna avere in tasca un lasciapassare. Ma non un documento qualsiasi. Il certificato di affamato non basta. Ci vuole una guerra, assolutamente.

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Mentre scrivo, il sinodo lavora. Tema? La famiglia. Dietro l’armonia di prammatica, i cardinali si danno battaglia soprattutto su una vessata questio, la comunione ai divorziati: schieramenti, raccolte di firme, smentite ufficiali, avvertimenti trasversali.

Non c’è nemmeno spazio per l’ironia, tanto appare siderale laàdistanza nel dibattito tra i porporati e la vita reale degli uomini di buona volontà, sposati o separati che siano.

Infatti Papa Francesco si occupa d’altro. Nel solo viaggio americano, incontrando i fratelli Castro e Obama, nei discorsi al Congresso americano e all’Assemblea Generale dell’Onu, ha fatto affermazioni di una forza e di una novità mai udite. Ha parlato a nome degli ultimi, dei rifugiati, degli sfruttati e contro il capitalismo vorace, contro lo sfruttamento dei poveri e del pianeta Terra.

A forza di insistere, non poteva aspettarsi altro. Magari in Vaticano qualcuno l’aveva anche avvertito, ma niente, Francesco ha la testa dura, uno strano incrocio tra un generale gesuita e un francescano della prima ora. In fondo se l’è voluta: insieme ai tanti elogi, inchini e baciamano, ecco l’epiteto con cui forse la storia lo ricorderà: Francesco, il papa socialista.

Ma il socialismo non era morto e sepolto? Forse no. Non credo comunque Francesco si dispiaccia per il suo nuovo soprannome. Certo non sarà una parola, brutta e fuori moda, a fermarlo.

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Secondo uno studio pubblicato su Science – per una volta voglio fidarmi degli americani – le formiche sarebbero tutt’altro che operose. Dopo aver osservato per settimane diverse colonie di formiche, dopo aver frugato nella loro vita pubblica e intima, giorno e notte (come nel Grande Fratello), due ricercatori dell’Università dell’Arizona hanno concluso che solo il 3% delle formiche lavora sempre, 24 ore su 24, il 72% sembra osservare un turno, mentre il 25% non lavora affatto. Un quarto delle formiche si adeguerebbe così al modus vivendi della cicala della favola.

La notiziola mi ha sorpreso, e mi ha anche provocato uno strano piacere. Ci hanno sempre additato le milionarie comunità di api e formiche come un modello perfetto: così ordinate, un po’ gerarchiche e antidemocratiche, ma efficientissime. Marchionne forse le sogna pensando alla Fiat di Melfi o alla Chrysler di Detroit. Se però fosse vero, se anche tra le formiche l’etica del lavoro luterana e/o taylorista non si applica. Se anche tra loro, le formiche, c’è varietà di opinioni, comportamenti, e magari dibattiti, scontri e confronti, avremo un’altra prova che tutto l’universo è aperto al nuovo e all’imprevisto.

È una piccola soddisfazione, minuscola se volete, ma sapere, o almeno immaginare, tante formiche che si rifiutano di lavorare come muli, a testa bassa, in ossequio a qualche potere assoluto, mi rincuora.