Viaggio a più voci nel continente della speranza
Il presente non basta a nessuno
Qualche mese fa, durante una riunione di redazione. L’idea sembrava scontata, banale addirittura, almeno per una rivista che alla speranza si rifaceva già nella testata: Madrugada è la seconda parte della notte, il buio più nero che precede e aspetta la luce. Un’alba futura, ancora invisibile agli occhi, ma che alla fine apparirà dietro il filo dell’orizzonte.
Eppure, proprio guardando alla prima fonte di ispirazione di Madrugada, e guardando intorno a noi, nella vicina Italia e nella altrettanto vicina Europa e Africa e America – vista la scomparsa del «lontano» come ci racconta Andrea Pase nel suo Isole nella corrente – guardando un mondo così traboccante di ingiustizia e guerra, sangue e oppressione, tornare a riflettere sulla speranza ci è sembrato un buon modo di «celebrare» i 25 anni di questa rivista: tagliare un traguardo e subito ripartire, senza perdere tempo.
Abbiamo scritto a tanti amici e collaboratori e abbiamo rivolto loro una domanda molto personale, una provocazione e una sfida: Dov’è finita la speranza? Perché proprio mentre in ogni parte del mondo la speranza sembra disattesa o dimenticata, oscurata o cancellata, è necessario scrutare i segni dei tempi. Proprio quando la categoria della speranza è abbandonata anche dai filosofi, strumentalizzata dai politici, irrisa da tanti uomini di scienza, la speranza è ancora lievito, strumento e visione per una liberazione possibile, contro ogni dominazione.
Ma dov’è finita la speranza? Dove rintracciare i segni della resistenza ai poteri, forti o deboli che siano? Dove ascoltare le voci cheàpropongono «una lingua nuova»? Dove riconoscere «i soggetti del cambiamento»? Dove, seppure a fatica, si stanno scrivendo i primi capitoli di una società più giusta e solidale? Dove possiamo indirizzare lo sguardo, in una notte nera, per scorgere i primi chiarori dell’alba?
Aldilà di ogni speranza e aspettativa – già questa è una bella notizia – decine di amiche e di amici hanno risposto al nostro appello e hanno messo nero su bianco la loro testimonianza.
Per farlo – lo vedrete scorrendo i brani che seguono – hanno usato i linguaggi più diversi: l’analisi economica o politica, la denuncia sociale o il taglio sociologico, l’excursus storico o l’approccio psicologico. Il linguaggio giornalistico, la satira, il racconto, la poesia.
Vedrete come la negletta speranza nasca e fiorisca nei terreni più aridi. E se a quanti paragoni e abbinamenti si presti, e in quanti modi e tempi si possa coniugare il verbo sperare. Sembra non si possa pensare o formulare questa parola senza che ci venga in mente una qualche metafora: «la speranza stella», ma anche «la speranza sol dell’avvenire», «la speranza ginestra», e futuro, isola, vento, corrente, sogno, impegno, lotta… A pensarci bene, è la speranza stessa a essere prima di tutto una metafora, a rimandare ad altro da noi – dal qui e ora -, a proiettarci in un luogo che ancora non conosciamo ma che non possiamo fare a meno di cercare.
Abbiamo scelto per questo lungo monografico una parola corta corta, Goel. Goel in ebraico significa Speranza, ma anche Comunità e Riscatto.