La violinista di Oslo

di Cardini Egidio

Ho sentito le note del violino da lontano e non mi è parso vero che provenissero proprio dalla strada. In Norvegia non mendica nessuno e quindi non poteva essere vero che qualcuno suonasse un violino sulla strada per guadagnare un soldo. Tutt’al più qualche zingara dalle lunghe gonne e dai capelli nerissimi, come accade ormai in quasi tutta l’Europa, o qualche gruppetto di ubriaconi sepolti dalle lattine di birra comperate al supermercato vicino. Ma un violino no.

Che qualcuno suonasse il violino in Olav Vs gate, la strada che dal giardino del Parlamento porta alla Rìådhusplass, la piazza del Municipio che sta in fondo al fiordo, era di per sé un fatto raro, finanche inusuale e inaspettato.

La ragazza era dolce, pulita, senza alcuna vocazione mendicante. E infatti non mendicava. Suonava come se la sua armonia si prendesse da sola il permesso di attraversare quella città fredda, livida, ventosa, epperò rassicurante. Nella sua perfezione algida Oslo era a suo modo rassicurante e priva di qualsiasi angoscia sociale. Le monetine norvegesi con il buco, quelle che molti collezionano, tintinnavano nella custodia del violino, aperta davanti e appoggiata per terra. Credo proprio che lei non ne avesse bisogno, ma percepivo che quel suono di violino intendesse raccogliere una sfida, recitando la poesia di una musica dolce e delicata là dove, forse, ci si era illusi che bastasse l’eliminazione del bisogno per eliminare anche la poesia.

È passata così, una prima volta, questa visione che ha scoperchiato all’improvviso una sensazione nuova e bellissima in una settimana nuova e bellissima

Sono volato in Norvegia con l’interrogativo se bastassero la perfezione sociale e la superiorità civile per regalare la serenità interiore e la coscienza della bellezza della vita e sono tornato con l’identico interrogativo, irrisolto e soprattutto irrisolubile. Molte cose non ho capito in Norvegia, pur attraversando una terra che è come un bambino uscito dal bagnetto: pulita, candida, profumata e pronta per la nanna. Mai avevo avvertito una sensazione così lucida di sicurezza e di tranquillità, in quelle vie così trasparenti e così ricolme di silenzio, dove non mancava nulla di quanto fosse necessario e giusto e dove lo sguardo poteva allungarsi e andare lontano lontano. Tanto a luglio c’è sempre luce e non sia mai che il buio possa impedire la vista o il sogno di alcunché.

Non ho capito, ad esempio, come i norvegesi possano vivere così dolcemente adagiati in sé stessi, riempiendo ristoranti, cinema e bar, ma sorridendo così poco, parlando così adagio, pedalando così veloce. Paiono godersi la vita, ma paiono anche contenersi nel godimento. In questo però mi sono sentito magnificamente rappresentato e questa è la vera ragione per la quale io in Norvegia ho respirato a pieni polmoni la sensazione di un’umanità gentile e del rispetto di chi ti sta accanto senza entrarti dentro.

Nel parco di Fornebu, alla periferia di Oslo, quando rientravo la sera in albergo, li vedevo sfrecciare tutti a una velocità fulminante, uno alla volta, senza una parola né una sosta, con il loro caschetto e il loro meraviglioso equipaggiamento. Nei ristoranti del Bryggens, a Bergen, assaporavano il calore della compagnia degli altri nel vento gelido di una città che si mostrava orgogliosa della sua pioggia e del suo vento implacabili. A me gelavano le ginocchia, ma loro, forse illudendosi di intravedere quel raro raggio di sole che la vita riserva d’estate, si stendevano silenziosamente felici in riva al fiordo.

Un giorno sono andato a Herdla e, quando sono partito, ho ironizzato alàcellulare con gli amici: «Passerò da Kleppestì¸ e andrò a Herdla. Chi non conosce Kleppestì¸ e Herdla?».

Ho preso il traghetto al porto di Bergen, sono sbarcato in questo luogo dal nome così indimenticabile, Kleppestì¸, ho mangiato un terrificante panino norvegese con un altrettanto terrificante caffè norvegese, di quelli di cui senti la polvere dell’estratto subito sul palato. Ogni volta in cui mangiavo, io, che resto un avaro inguaribile, provavo una sensazione di svuotamento e di rapina, con quei prezzi così salati e quei cibi così dolci.

Poi ho preso l’autobus per Herdla, su quella strada lunga 35 chilometri senza un paese, ma con una serie interminabile di case isolate, rosse come il fuoco, immerse dentro un intenso verde smeraldo, sulla riva di fiordi dove il blu del mare si intrecciava con il bianco del cielo, ben sapendo che d’estate il nero della notte non arriva mai.

Herdla è un villaggio di 150 abitanti, con un porticciolo delizioso, un gruppo di case tutte in legno, una vecchia postazione della contraerea tedesca e un’indimenticabile mandria di vacche che presidia la fermata dell’autobus.

La chiesa in cima alla collina, circondata da un cimitero con tante lapidi, era regolarmente chiusa, come sono sempre chiuse tutte le chiese norvegesi. Mi sono seduto davanti al cancello e ho pensato alla violinista di Oslo, immaginando che in quel momento suonasse per me.

Se la chiesa fosse stata aperta, sarei entrato, perché mi piace sempre associare il senso della trascendenza alla freschezza della natura, ma era infelicemente chiusa.

Ecco, dei norvegesi non ho capito quest’apparente freddezza trascendentale. Io, che ho sempre disdegnato ogni forma di religiosità esibita, stavolta rimpiangevo il calore di un sentimento religioso che si fa fuoco, carne, battaglia nelle cose del mondo. In Norvegia invece l’esperienza religiosa pare essersi racchiusa, quasi raggomitolata, dentro una nicchia di parole sommesse e di contemplazioni private.

Al terzo tentativo sono riuscito a visitare la Cattedrale luterana di Oslo. Visitare qui è il verbo più adatto perché quasi tutte le chiese norvegesi hanno una dimensione museale, ma assai poco spirituale. Nella Cattedrale di Bergen invece ho trovato un culto domenicale in corso. I due pastori leggevano la Parola, predicavano con garbo e sapienza, pregavano con misura tra cori ordinati e solenni. Sessanta persone ascoltavano nel più rigoroso silenzio, sessanta persone nella Cattedrale di una città di più di duecentomila abitanti, a testimoniare la sostanziale assenza di militanza e di frequenza religiosa, mentre in fondo alla stessa Cattedrale un gruppo di bimbi biondissimi disegnava e giocava accanto a un’animatrice e una signora anziana preparava il caffè e i biscotti per i fedeli che sarebbero usciti da lì a poco.

Ci ho pensato e tutto sommato ho trovato tutto ciò così umanamente semplice. La fede per un luterano è essenzialmente investimento nell’ascolto di un Dio che parla, è Parola che ripudia ogni esteriorità e un bimbo, che ama le immagini e i simboli, non regge questo impatto e allora viene lasciato essere quello che è: un essere umano che gioca e che disegna. Per conoscere Dio, nella dimensione della ragione e di ciò che è interiore, arriverà il tempo.

E poi il caffè con i biscotti come atto di accoglienza e di gentilezza e come recupero di una dimensione umana così diretta ed elementare. Davvero una dimensione religiosa per noi così differente. Ancora oggi non so dire se siano carenti di fede o invece ricolmi di una fede essenziale eàpulita, libera da ogni incrostazione esteriore.

Nel Museo della Scuola, annesso alla Cattedrale, ho trovato una ragazza che lavorava a maglia e sono restato a bocca aperta. Ho pensato alla mia nonna materna, che sferruzzava prima di dormire: diritto, rovescio e punto a croce, diritto, rovescio e punto a croce. Mentre si metteva gli occhiali per leggere le istruzioni delle riviste specializzate.

Quando sono tornato da Bergen in treno, mentre fuori infuriava la bufera, una signora robusta che mi sedeva accanto e che è scesa nel luogo più sconosciuto della Terra, Ustaoset, sferruzzava uguale uguale: diritto, rovescio e punto a croce, diritto, rovescio e punto a croce. Sarà perché in Norvegia fa un freddo cane e perché i maglioni sono pesantissimi ed enormi, ma molti lavorano a maglia con un salto nel passato per un Paese e per un popolo che altrove paiono sempre lanciati verso il futuro.

Di quel viaggio in treno mi ricordo ogni stazione, ogni legno che ne adornava le sue pareti, ogni cascata, ogni refolo di neve che scendeva lungo i pendii. La neve è, anche d’estate, una compagna affettuosa e le montagne sono, nella loro asperità, quasi un santo protettore della Norvegia. Al decimo fiordo, alla decima montagna, al decimo lago ti accorgi che non sei ancora stanco e che vorresti vedere subito l’undicesimo. Nella sua imponenza la natura si associa all’uomo, che la rispetta e la sente compagna. Che cosa meravigliosa il rispetto.

Mi sono addormentato per un po’ e, quando mi sono risvegliato, mi sono accorto che il controllore, avendo visto la mia prenotazione sul tavolino mentre dormivo, l’ha sfilata in silenzio senza svegliarmi, l’ha digitata e ha rimesso il biglietto al posto della prenotazione. Che cosa meravigliosa il rispetto.

E poi la familiarità con l’avventura. Al Museo Fram, quello delle spedizioni polari, mi sentivo già alle Svalbard, sul dirigibile Italia, quello del Generale Nobile: io, il Generale Nobile e Titina, la sua cagnetta sopravvissuta al disastro. Nella speranza di sopravvivere al disastro tra i ghiacci anch’io.

Sarà perché abitano una terra scoscesa con un clima difficile, ma i norvegesi amano convivere con l’estremo, fermandosi sempre un momento prima di essere sopraffatti. Sanno farlo. Tra loro e la natura c’è il rispetto che esiste tra sé stessi e l’altro. In fine dei conti sono un popolo silenziosamente dolce. Dolce di quella dolcezza che sgorgava dalla violinista di Oslo. Sempre lei.

Sono passato tre volte dalla Olav Vs gate e l’ho incrociata tre volte, mentre suonava sempre con la stessa delicatezza. La terza volta mi ha sorriso. E ha continuato a sviolinare.

Da una terra di montagne, di fiordi, di neve, di laghi, di musei, di spedizioni polari, di caffè nero e di salmoni, di barche vichinghe e di chiese chiuse, di silenzi imponenti e di sorrisi gentili, di perfezione sociale e di superiorità civile, da una terra così ho portato a casa quel suono di violino, così garbato, e quella giovane e graziosa violinista, che suonava per la strada e raccoglieva monetine con il buco senza averne bisogno.

Per otto giorni mi sono identificato con quella Norvegia, io e la Norvegia, diventando simile a una terra che è come un bambino uscito dal bagnetto: pulito, candido, profumato e pronto per la nanna.