Federico Caffè. A cento anni dalla nascita

di Amoroso Bruno

È noto che c’è qualcosa di peggio di non essere ricordati, e cioè di esserlo in modo sbagliato e fuori luogo. Di questo rischio Federico Caffè era consapevole e, infatti, agli inizi degli anni Ottanta, in un biglietto allegato alla spedizione di alcuni articoli che lo riguardavano, annotava: «Come vedi mi stanno trasformando in una specie di monumento. Vorrei sentirmi più vivo».

I ricordi e le celebrazioni per i 100 anni dalla nascita di Federico Caffè (6 gennaio 1914) sono stati e saranno numerosi. In questi casi si parla del ricordo della persona, delle cose da lui fatte, del suo pensiero. Lasciamo alle ricorrenze della sua uscita di scena il compito di analizzare i conflitti avuti, l’eredità intellettuale lasciata e i complessi e controversi rapporti con i suoi allievi divenuti sempre più numerosi nel corso del tempo.

Le specificità della persona Federico Caffè che a me piace ricordare, quella che lo ha distinto da ogni altra, è quella di aver saputo tessere dentro la rete dei rapporti da lui stabiliti nell’ambito delle varie funzioni, un legame di affettività che è poi il collante umano della socialità, il nucleo fondamentale del sentirsi «vivi».

Questo si è manifestato durante l’intero percorso del suo apprendimento, mai terminato, nell’umiltà del suo approccio ai lavori dei suoi maestri, dei quali negli scritti ricorda oltre all’importanza e significati dei loro messaggi l’autenticità del loro impegno, la loro coerenza rispetto ai valori ai quali si richiamavano, quell’articolazione umana e di pensiero che gli consentiva di non cadere nei rigidi schemi e nelle trappole dell’ideologia. L’attenzione da lui dedicata ai suoi maestri e altri economisti contemporanei – da Einaudi e Masci a Sylos Labini e Graziani – testimonia questo approccio e bisogno di autenticità.

Un maestro che aveva profondo rispetto e capacità di selezione sui propri maestri e che cercava di suscitare lo stesso rapporto autentico, non funzionalistico, con i suoi allievi. La sua idea di buon o cattivo allievo non dipendeva dagli sfoggi di erudizione da questi prestati, e tanto meno dalle loro ambizioni di affermazione nella scala accademica e sociale. Caffè cercava di capire le aspirazioni di ciascuno e l’autenticità dei singoli progetti di vita per poi aiutarli aàfornirsi della cassetta degli attrezzi a loro necessaria per la realizzazione dei loro progetti professionali e di vita.

Caffè era convinto che l’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone. Ma di persone dentro un sistema di rapporti affettivi e sociali dal quale ricavano la loro linfa vitale e al quale devono corrispondere il loro affetto e il loro impegno. Non c’era nulla di astrattamente sociologico o economico nel suo interesse per la vita dei pensionati, delle speranze dei giovani, delle condizioni di lavoro e di occupazione, per gli incidenti sul lavoro. Per lui la solidarietà non era un dovere civile da rispettare perché dettato dalle leggi o dalla Costituzione, oppure un criterio di efficienza per l’economia, ma che nasceva dall’amore per le vite degli altri e della propria. Trasferire quest’ultimo (l’amore per le persone) dentro le leggi e la Costituzione è stato il suo maggiore impegno riassumibile nella sua «economia degli affetti».

Studiando i sistemi di organizzazione sociale e produttiva che si erano affermati anche in Italia negli anni Sessanta Ottanta – i sistemi di relazioni industriali e la gestione dello stato del Benessere – Caffè individuò con chiarezza le crescenti contraddizioni di un sistema che in modo crescente sostituiva i valori affettivi e comunitari della solidarietà con quelli mercantili della «negoziazione» e del «contratto» con le conseguenze di mercificazione e monetizzazione dei legami sociali che questo ha portato con sé.

Caffè non si stancò di denunciare, anche con forza polemica, la distrazione dei sindacati e della sinistra che, nel loro coinvolgimento nel variegato insieme di organismi misti destinati a concretare la democrazia industriale e la programmazione economica, hanno confuso «l’ombra della partecipazione con la realtà del potere» riducendo così la loro domanda di cambiamento a bassi patteggiamenti salariali per taluni gruppi e a uno scambio «negoziale» tra forme diverse di privilegio a scapito del progetto di «società del benessere» dal quale si era partiti.

Bruno Amoroso

 

Dal libro di ricordi su Federico Caffè di Bruno Amoroso: Federico Caffè. Le riflessioni della stanza rossa, Castelvecchi 2012.

I libri e le letture

Due librerie di legno massiccio facevano da cornice al divano. Misi gli occhi sugli scaffali e riconobbi gli autori di cui avevamo spesso parlato: tutte le opere di Thomas Mann, le Memorie di Adriano di Yourcenar con i due volumi delle sue opere, i sonetti di Shakespeare, Wilde, tutto di Pasolini, Pavese e diversi americani come Hemingway, Leavitt, Baldwin e Fitzgerald. C`erano poi le sue letture giovanili, i russi come Tolstoi, Gogol, Gorkij e Checov e i francesi con Stendhal, volutamente in prima fila, a giudicare dai libri esposti. Degli scandinavi, numerosi, riconobbi solo Strindberg, Andersen, Kierkegaard e lo svedese Lagerkvist, autore di Barabba. Sul primo scaffale, raggiungibile all’altezza degli occhi, erano allineati in ordine sparso i suoi «libri da mostrare», come suggeriva per contrasto il titolo del libro della Masi, Il libro da nascondere, compreso tra questi.

Riconobbi subito il voluminoso bordo rosso de I viceré di De Roberto e La scomparsa di Maiorana di Sciascia, entrambi da me datigli «in prestito», come avevo tenuto a sottolineare. Il primo per compensare il suo eccessivo interesse per Il Gattopardo di Lampedusa, e il secondo perché oggetto di ripetuti richiami nei frequenti incontri nella nostra seconda «stanza rossa», a Roma, a due passi da Via Panisperna.

Il libro di De Roberto mi richiamò alla memoria un episodio accaduto a Napoli qualche anno prima. La mia curiosità, sollecitata da film e letture, mi spinse a chiedergli di accompagnarmi a Napoli per visitare i vecchi quartieri del centro. Trovammo facilmente un piccolo albergo dal quale uscivamo per lunghe escursioni nei vicoli e nelle piazze della città.

Un mattino, mentre rileggevo alcune pagine dei Viceré, usci per andare a comprare i giornali. Ritornò dopo non molto con i giornali sotto braccio e leggermente affaticato. Mi raccontò che aveva attraversato la piazzetta alla fine del vicolo da noi abitato dove, come al solito, molte persone occupavano i tavolini del bar giocando a carte e discutendo, mentre il resto della piazzetta era popolato da gente a passeggio e venditori ambulanti. Al ritorno dal giornalaio ci fu un trambusto nel bar, con urla e tafferugli, rovesciamento di tavoli e sedie e un`ondata di spintoni si trasmise su tutta la piazzetta. Anche lui, come tutti, ricevette qualche spintone, ma poi, rapidamente, le persone al bar sollevarono tavoli e sedie riprendendo i loro giochi e la lettura dei giornali, e anche sulla piazza ritornò la calma dalla quale i più si allontanarono frettolosamente.

Dopo il racconto mi chiese un giudizio sull’accaduto pensando che questo consentisse spiegazioni profonde sul comportamento dei napoletani, la loro cultura, il senso della socialità e il conflitto. Rimase lì a guardarmi in attesa di risposta, convinto che io avrei richiamato chissà quali testi o autori a lui sconosciuti che potessero dar conto di quegli eventi. Richiusi lentamente il libro che stavo leggendo e assaporando il piacere della previsione che stavo per fare gli dissi, guardandolo con bonario rimprovero: «Ti sei fatto rubare il portafoglio». La sua immediata verifica dimostrò che avevo ragione e questo accorciò di molto il bisogno di ulteriori spiegazioni.

Per non deluderlo troppo, tuttavia, gli ricordai che la ben nota «strategia della tensione» non sempre assume forme violente, ma anche quelle più sottili, anche se altrettanto dolorose, dell’«allarmismo economico». Diversi studi di autori statunitensi avevano segnalato già agli inizi degli anni Settanta il prodursi di fenomeni di concentrazione finanziaria e di potenti lobby in grado di manipolare a loro vantaggio il funzionamento dei mercati e della politica. Il capitalismo di rapina nasce da questo, conclusi asciuttamente. E la conclusione finale è che i cittadini si ritrovano sempre più poveri.