Il modo migliore per realizzare i nostri sogni è svegliarsi!
«Tu mi hai concesso di sedere
in case non mie e in ogni paese
del mondo,
di uno sconosciuto hai fatto
un fratello»
Rabindranath Tagore
La prima cosa che mi colpì degli indios ecuadoregni fu la loro statura. Vicino alle sagome torreggianti dei ricchi e insolenti turisti d’Europa e d’America, ben vestiti e ben pasciuti, risaltava in maniera impressionante la dimensione lillipuziana delle magre vecchiette, che tendevano l’incerta mano per avere qualche sucre e ricevevano, il più delle volte, uno sprezzante rifiuto.
Le scene di palpabile discriminazione razziale tra i dominanti, gli invasori, e gli indigeni, i dominati, ridotti a sopravvivere nelle riserve più disagiate e improduttive, mi spaccavano il cuore.
A Otavalo, come negli altri luoghi, i mercatini indios con gli abiti, i pittoreschi manufatti di pelle e di lana, i maglioni, i tappeti, gli scialli, i quadri naif e altri oggetti decorativi, attiravano la vorace avidità dei visitatori.
Sul bivio drammatico
Sentivo mia la tragedia silenziosa di questo popolo, messo sul bivio tremendo dell’integrazione, della perdita d’identità, come succede in certi quartieri di Quito, come avviene nella fauna degradata del sottoproletariato urbano, cheànelle grandi metropoli sudamericane assume le stigmate della devianza criminale, oppure della conservazione della propria integrità culturale a prezzo di logorante fatica, miseria, emarginazione.
Eppure un’imponderabile gaiezza sembrava aleggiare sui volti scuri, sui piccoli corpi accosciati al suolo, nella lacera dignità degli abiti fantasiosi, dei poncho tradizionali, dei cappelli sbarazzini. Los niÁ±os, seduti accanto alle madri che vendevano la loro povera merce di agricoltori nelle strade cittadine, ti rivolgevano un sorriso dolcissimo e ti si attaccavano al dito per una carezza, un gesto gentile, un dono da nulla. Miseria infinita e infinita, innocente mansuetudine.
Due passi a Quito
Nell’escursione in città a Quito mi fermai a comperare per pochi sucres una piccola tela dipinta da un ragazzo indio. Subito il fratellino (forse sorpreso di sentirmi pronunciare una formula di cortesia nel loro antico linguaggio) me ne offrì un’altra, con un grazioso motto d’orgoglio: «Questa l’ho fatta io, te la regalo».
Stupendo fu il pellegrinaggio alla Vergine del Panecillo, che domina la città: meta d’obbligo, come la mitad del mundo che dà nome al paese del sole a picco. I raggi sono perpendicolari sull’Ecuador: la cosa dà una sensazione strana di spaesamento, accresciuta anche dall’immensità dell’alta terra montagnosa.
Al Museo Nazionale di Quito restammo incantati dalla varietà indescrivibile degli strumenti musicali, a noi sconosciuti, prodotti dalla civiltà india.
Ebbi poi l’occasione di provare l’ammirevole efficienza di professionisti e artigiani che fanno grandi cose con pochissimi mezzi: dalla dottoressa, che mi praticò con garbo e pazienza una pulizia dentaria, mai effettuata tanto diligentemente in Europa, al barbiere, che riuscì ad arrestarmi la caduta dei capelli con una serie laboriosa e sapiente di impacchi e di lavande, pur disponendo solo di un catino e di un bricco per l’acqua calda. Cordiale e ospitale è tutta la gente di questo bel paese.
Il mito violento della modernità
Mentre si svolgevano i fatti tragici di Parigi, nei successivi commenti e riflessioni si sono sprecate retorica, menzogna, ignoranza e malafede.
Le autocelebrazioni dell’Occidente straripavano al grido di «Je suis Charlie». Consentitemi: «Moi, je ne suis pas Charlie». Non credo neppure a quel che mi ha scritto un amico, un noto giornalista brasiliano: «Ho l’impressione che l’Europa abbia perso la sua identità». Sono convinto, invece, che nella «Modernità» di cui l’Europa si vanta sia presente un equivoco originario.
Henrique Dussel, uno dei maggiori pensatori latinoamericani, ha messo a fuoco, nelle sue riflessioni, l’ambiguità del mito della Modernità.
Egli scrive: «La Modernità contiene un «concetto» emancipatore razionale, ma contemporaneamente sviluppa un «mito» irrazionale di giustificazione della violenza che dobbiamo negare e superare. Se i postmoderni criticano la ragione moderna in quanto ragione, noi latinoamericaniàcritichiamo la ragione moderna in quanto occulta al suo interno un «mito» irrazionale».
Il 1492 è la data di nascita della Modernità, sebbene la sua gestazione abbia avuto origine nelle città europee medievali, libere, centri di grande creatività. La nascita, però, avvenne allorché l’Europa poté confrontarsi con l’Altro e controllarlo, vincerlo, violentarlo. Quando, cioè, poté definirsi come un «ego» scopritore, conquistatore, colonizzatore dell’Alterità costituente della Modernità stessa. Questo «Altro» non venne scoperto in quanto «altro», ma fu ri-coperto (occultato) da quello che l’Europa era da sempre. Il 1492 è diventato così il momento della nascita della Modernità come concetto, origine di un mito di violenza sacrificale, di un’identità inattaccabile che procedeva all’occultamento non-europeo.
Una visione diversa di progresso
Se la scoperta dell’America, vista dall’Europa e dai meticci, è un evento sulla linea del progresso civilizzatore umano, non è così se ci poniamo dalla parte degli Indios e nella loro prospettiva. Potremmo, addirittura, scoprire un’interpretazione opposta.
La Pan-Amazzonica, una parte enorme del Sud America che abbraccia Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana Francese, Perù, Suriname, e Venezuela, è la fascia dove risiedono e vivono molti popoli indigeni.
Le loro terre sono pesantemente minacciate dalle imprese minerarie, dall’agrobusiness e dall’invasione della soia. I popoli indigeni ci invitano ad abbandonare la visione occidentale dello sviluppo e quella della crescita, visione che mette in pericolo molte forme di vita. In alternativa ci propongono e praticano l’unità tra Madre Terra, società e cultura. Invitano a custodire la Madre Terra e a farsi custodire da essa, esserne figli, senza esserne i padroni o i saccheggiatori.
Considerano l’acqua come diritto umano fondamentale e non come merce. Chiedono infine decisioni collettive sulla produzione, sull’economia, sui mercati, nella prospettiva di una nuova etica sociale, alternativa a quella del mercato globalizzato. Per loro la natura è la Pacha Mama, Terra Madre, un modo diverso di vivere. È un’autentica correzione di prospettiva nel guardare la storia dall’altro lato, dalla parte dell’altro, occultata dalla scoperta dell’America.
Quali sono i nostri idoli?
Ogni uomo e ogni donna costruisce nel tempo e con l’esperienza una propria gerarchia di valori che agisce da bussola d’orientamento. Indagare questo territorio del pensiero, dell’azione e della coscienza può svelare, a volte, se e quanto siamo degli idolatri.
Nessuno è disposto ad ammettere di esserlo, eppure l’idolatria si muove nella cultura contemporanea a proprio agio e sa di poter contare su numerosi adepti, perché si nasconde sotto suadenti sembianze. Basti pensare al denaro, che impersona l’idolo più diffuso, quello che da sempre ha maggiore presa e che il sociologo Georg Simmel colloca fra i feticismi.
Papa Francesco avverte con chiarezza nella Evangelii gaudium come «abbiamo creato nuovi idoli, accettandoàpacificamente il predominio del denaro su di noi e sulle nostre società». Se il denaro rientra nelle mappe dei nostri idoli, assieme al potere, al successo e al sesso, il fenomeno dell’idolatria tocca un aspetto strutturale della nostra esistenza, che chiama in causa il senso di sé, il concetto di appartenenza, la libertà.
Sono le stesse dinamiche che troviamo spiegate dal profeta Geremia nel cap. 2, con la dura requisitoria contro Israele. Geremia era stato testimone delle due violente incursioni del re Nabucodonosor, il quale distrusse il Tempio di Gerusalemme e deportò in Babilonia gran parte del popolo d’Israele.
Le sue parole conservano una loro forza particolare, svelando gli aspetti più nascosti e i sentimenti più inconfessati dell’animo umano. Quando Israele costruisce idoli scivola nel degrado, nell’infedeltà, nel disprezzo, nella malvagità.
Siamo sicuri che l’idolatria non si sia già impossessata dei popoli cristiani dell’Occidente nel disprezzo dell’altro, nella corruzione e nell’infedeltà?
Vincere il male con il bene
Quando arriva una qualsiasi sventura, quando subiamo una grande violenza non possiamo dire a Dio «sia fatta la tua volontà»!
Dio non vuole sventure, violenze. Se così fosse, dovremmo lottare contro di lui e rifiutare la sua volontà. Se nonàriusciamo a comprendere e spiegare la realtà dei fatti, protestiamo liberamente e francamente con Dio. Gridiamo, pure, verso di Lui, chiamiamolo anche a rendere conto delle sue promesse di bene. Tutto ciò è molto meglio che subire con animo servile e impaurito la sua potenza odiata.
Dice un santo musulmano (a onta del presunto fatalismo islamico): «Quelli che obbediscono a Dio sotto il bastone e ne vanno superbi, sono peggiori di quelli che si ribellano» (da Vite e detti di Santi Musulmani).
Questo ce lo insegna anche la franchezza ebraica, dove il credente discute con Dio, come ha fatto Giobbe o il salmista. Se deve ammettere di dover tacere, lo fa dopo aver parlato.
Oggi noi assistiamo a una quantità di violenza che supera la nostra comprensione, la nostra sopportazione. Non basta condannarla, non basta combatterla con le armi, perché poi rispunta. San Paolo scrive: non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene, che non è un atto di sudditanza, non è un atto di resa o di pacificazione con il male, ma raccogliere e prendere su di sé il passato e il presente, portarlo e sentirlo come nostro, e cercare, costruire un comportamento, relazioni, strategie che rendano questo mondo migliore. E questa è un’onda di bene che sommerge buoni e malvagi, i cinici e gli indifferenti.