Tanzania
Tra sogni e risvegli
Tan-za-nia, le speranze
«Mungu Ibariki Afrika… Mungu Ibariki Tanzania», iniziano così le strofe dell’inno nazionale tanzaniano, parole che presentano il Paese al resto del mondo.
Mungu Ibariki Tanzania: tre parole swahili a racchiudere un percorso lungo millenni e a dare, forti di un’identità culturale, la prospettiva di un sogno collettivo, voluto e cercato, ma ancora lontano. Perché queste parole? Cosa significano? Cosa raccontano?
Prima ancora che ai significati, fermiamoci alla forma in cui sono espresse, che è a sua volta una scelta densa di senso. Sono tutte parole in kiswahili (lingua swahili), lingua africana per eccellenza, parlata da circa 80 milioni di persone. È la lingua dell’incontro e dello scambio, delle culture che si sono mischiate e fuse nei millenni tra le coste e l’entroterra. In Tanzania questa lingua profondamente africana è stata voluta in orgogliosa sostituzione delle lingue coloniali (europee e non). Una scelta che è già una presa di posizione davanti al mondo, a testa alta. Ed è proprio con orgoglio che vengono allora intonate le tre parole di cui sopra, Mungu Ibariki Tanzania, Dio benedici la Tanzania. Tre parole, tre storie ma di una sola cultura che, largamente e antropologicamente intesa, è espressione dinamica di ciò che si apprende, si eredita e si respira nelle determinazioni spazio-temporali in cui essa nasce e si sviluppa. E se il kiswahili è la lingua dell’incontro, queste tre ne sono esempio.
Mungu, Dio. È una parola swahili di origine bantu, popoli provenienti dal cuore di quell’Africa di cui questo Paese si definisce mtoto, figlio. Mungu è un termine «già in uso tra le popolazioni proto-swahili e altre popolazioni costiere per dare espressione di deità, sia essa il cielo, la volta celeste, il tuono, lo spirito dell’uomo dopo la morte» o persino il Dio musulmano1. Se l’elemento bantu è importante, non è da meno quello arabo, anch’esso essenziale, da cui deriva la seconda parola, ibariki, benedici, dall’arabo bàraka, benedizione. Ma Dio benedici… chi? La risposta a questa ulteriore domanda ci accompagna alla terza e giovanissima parola che quest’anno ha compiuto 50 anni: Tanzania. Parola giovane ma carica di un messaggio per tutti i paesi africani. Non basta essersi liberati dai colonizzatori (1961 per il Tanganyika e 1964 per Zanzibar). L’unica strada possibile per riappropriarsi della propria terra, l’Africa, è l’Unione. Non più Tanganyika, non più Zanzibar ma Tan-za-nia, Paese che già dal solo nome voleva essere esempio e prospettiva, sogno e punto di partenza per gli africani, così come quel nuovo inno, composto proprio da un africano decenni prima e rimasto lì quasi in attesa di un’idea da servire2.
Julius Nyerere, le proposte
A questa idea ha dato voce Julius Nyerere, Baba ya Taifa, padre della patria, primo presidente della neonata Repubblica Unita di Tanzania che da un’intesa privata tra leader diveniva intesa pubblica e nazionale. Quando Nyerere, più comunemente chiamato Mwalimu, il maestro, diviene presidente, il Paese contava 10 milioni di abitanti, un solo ingegnere, 9 veterinari, 16 medici, nessun magistrato e nessun architetto. Eppure, da questa realtà, carente nell’economia, nella cultura, nell’inesistente sistema scolastico, nelle povere strutture statali, nell’assenza di formazione professionale, nasce la speranza del «socialismo africano», la cosiddetta «esperienza tanzaniana». Ujamaa e uhuru sono termini swahili e Nyerere si sforzerà di pensare la politica solo in questa lingua, nella quale pronuncerà tutti i suoi discorsi e che sarà un forte strumento di coesione per una popolazione di 127 etnie diverse. L’obiettivo è la costruzione di una società giusta di cittadini liberi e uguali che controllano il proprio destino e insieme cooperano in uno spirito di fraternità umana per il loro mutuo beneficio. Uhuru vuol dire indipendenza, ma anche libertà e le due accezioni verranno usate tanto in politica estera che in politica interna. Per la prima accezione, indipendenza, Nyerere mette subito le carte in tavola affermando che nessun africano potrà sentirsi veramente libero fintanto che una parte del continente rimarrà sotto la dominazione coloniale: da qui l’impegno contro il colonialismo in tutta l’Africa e l’apartheid. Lo strumento è l’Ujamaa, che sta a indicare sia l’insieme delle relazioni familiari allargate come modello di vita sociale, sia la cooperazione nel lavoro sotto l’egida dello Stato e l’aiuto reciproco per assicurare il benessere e la divisione dei frutti della comune attività3 in una terra di proprietà degli africani. Utopie? Vani sogni?
La situazione attuale
Cosa ne è stato di quell’Africa libera e indipendente? Tanti sono stati i fattori che hanno contribuito al fallimento, anche se non totale, di questo sogno: l’opposizione e il boicottaggio attivo da parte occidentale di ogni genere di socialismo al culmine della guerra fredda; il sostegno economico inadeguato da parte degli organismi di finanziamento internazionale; la corruzione dei funzionari pubblici in Tanzania4 unita all’incapacità di sfruttare le risorse interne per il bene di tutti. Ed è in questo scenario che nel 1985 Nyerere esce dalla scena pubblica, lasciando però una nazione impoverita, estremamente a rischio, come poi è avvenuto, di nuove colonizzazioni sotto altri nomi e altre spoglie. I ripetuti programmi di educazione per tutti (elimu kwa wote) hanno riempito il Paese di edifici scolastici vuoti di insegnanti validi. I tassi di «prima iscrizione» a scuola toccano percentuali intorno al 90% ma, di fatto, la speranza di percorso scolastico non supera i 5-6 anni. Solo il 7% ha un’istruzione superiore alla primaria, il 20% dei ragazzi frequentanti le scuole in anni superiori al primo è completamente analfabeta e il 90% di ragazzi e adulti (sopra i 15 anni) abbandona gli studi per un mondo, quello del lavoro, che comunque non permette a quasi il 70% della popolazione di superare la linea di povertà e a circa la metà di queste di superare gravi situazioni di bisogno5.
Anche la situazione sanitaria è carente. Le campagne sanitarie contro le principali malattie hanno raggiunto pressoché la totalità dei villaggi, con campagne di vaccinazione che toccano il 98% dei bambini. Ciononostante la mortalità alla nascita è di un bambino ogni 200 nati circa, il 5% dei neonati muore nel giro di pochi mesi e il 7,6% muore entro i 5 anni. La speranza di vita non supera i 59 anni e l’AIDS, assestato al 4% dell’intera popolazione, nelle zone di passaggio trans-nazionale raggiunge anche soglie del 25%.
Le potenzialità
Questo però non è il Paese senza risorse degli anni ’60. È un Paese che ha un enorme potenziale di risorse naturali, culturali e di attrazioni turistiche. Può vantare Parchi Nazionali, la caldera dello Ngorongoro, il tetto d’Africa Kilimanjaro, le rovine di Kilwa, l’intera città di Stone Town, le miniere di pietre preziose, le bianche spiagge coralline o le zone marine protette. Ci sono risorse ma non ci sono e non ci sono stati leader devoti al bene comune e anche la terra, soprattutto sull’isola di Zanzibar è, di fatto, in mano a investitori stranieri che non portano che poche risorse e troppo pochi servizi per un Paese di 48 milioni di persone in continua crescita. Della Tanzania e dei suoi abitanti ci si innamora facilmente ma, forse, se davvero si vuole il bene per questo Paese, bisognerebbe semplicemente unirsi alle parole del Mwalimu: «E infine una preghiera per noi riuniti qui; una preghiera per le sfruttate popolazioni africane, affinché usino le opportunità dateci dalla nostra libertà e dalle moderne tecnologie, per liberarci dalle vestigie rimaste di (ogni) colonialismo e di strappare la nostra gente dai ceppi della povertà, dell’ignoranza e della malattia»… quindi, Mungu Ibariki Tanzania.6
Nicolò Maraolo
educatore e responsabile progetti educativi dal 2005 al 2012: coordinatore progetti socio-educativi, formatore e insegnante in Tanzania e Zanzibar per i ministeri dell’educazione, sanità e servizi sociali tanzaniani.
Fonti
F. M. Topan, Swahili as a Religious Language, in «Journal of Religion in Africa», 22, 4 nov. 1992, pp. 331-349, p 336. Il termine Mungu seppur accompagnato dall’espressione Mwenyezi (parola composta da mwenye, che indica «colui che ha possesso», ed ezi, «potere» o «grandezza» dato che la sola parola Mungu non si è dimostrata sufficiente a tradurre la piena potenza del Dio musulmano), è stato adottato anche dalla cultura islamica a sottolineatura, appunto, della vicinanza culturale.
Nkosi Sikelel’ iAfrika (in lingua xhosa «Dio protegga l’Africa») fa parte dell’odierno inno nazionale del Sudafrica. Adattato e tradotto è diventato inno nazionale della Tanzania e dello Zambia. In passato è stato anche inno nazionale dello Zimbabwe e della Namibia.
AFRICANEWS, versione italiana, n. 23, febbraio 2000.
LA TANZANIA PIANGE IL «MWALIMU» di Pierangelo Panzeri.
La soglia di povertà dell’Indice di Sviluppo Umano 2013 preparato dallo UNDP è di 1,25 $ al giorno.
Dal discorso del presidente Nyerere ai Capi di Stato africani, Il Cairo, 20 luglio 1964.