La Chiesa cattolica in Sarajevo
Ruolo e prospettive
Non di rado mi capita di assistere alle conversazioni in cui i nostri ospiti venuti dall’estero ci parlano della Chiesa in Sarajevo in termini superlativi considerandoci, addirittura, dei martiri.
Un’ambiguità da sciogliere
Devo dire di provare un certo imbarazzo, soprattutto a causa di qualcuno dei nostri che cerca di alimentare e incoraggiare considerazioni del genere. La Chiesa in Sarajevo non è una Chiesa, martire e non è senza le sue rughe! Lo dico perché qui parlare di Chiesa ancora si intendono, quasi esclusivamente, vescovi, preti e religiosi. E noi non viviamo da martiri. Una società che ai sacerdoti e ai religiosi, specialmente ai vescovi, riserva i primi posti durante le manifestazioni civili, dedicaàvasto spazio nei mass media, dà la precedenza in tutte le situazione della vita quotidiana, non si può qualificare ostile «alla Chiesa».
La condizione dei fedeli cattolici
Questo, però, non si può dire dei fedeli laici. Essi a Sarajevo portano il peso della discriminazione istituzionale, come succede ai membri delle altre Chiese e comunità religiose in altre città e regioni di questo Paese, etnicamente diviso e religiosamente contrapposto. Questa divisione, realizzata per mezzo della guerra e sancita dagli accordi della pace a Dayton, si riflette su tutte le realtà della vita quotidiana, soprattutto sulla possibilità di accesso ai pochi posti di lavoro. Ricordo che la disoccupazione supera il 50%. I cattolici, a causa della situazione economica disperata, causata dall’ostilità politica, essendo parte minoritaria della popolazione, credono sempre meno nel proprio futuro in questo Paese. La posizione del popolo croato, a cui appartiene il 95% dei cattolici, è stata compromessa già a Dayton ma in modo particolare per mezzo della sua, del tutto arbitraria e pragmatistica, traduzione e realizzazione compiuta dai rappresentanti della comunità internazionale. La conseguenza di questa discriminazione e mancanza di prospettive è il continuo calo dei cattolici, che ogni anno registra la perdita di circa cinquemila unità.
Lo stato delle cose oggi
Non è facile presentare il ruolo della Chiesa in Sarajevo in tali circostanze. Temo che, in fondo, si traduca nella tensione tra due obiettivi difficilmente conciliabili. Il primo impegno della Chiesa è di convincere i cattolici a rimanere fedeli a questo Paese, restando a vivere anche a Sarajevo. Vale a dire d’impegnarsi per la sopravvivenza di questo Paese come multietnico e multireligioso. Quest’obiettivo non è possibile senza una certa guarigione morale che, a sua volta, postula il perdono e la riconciliazione. Però, si pone spontanea-mente la domanda sulla possibilità del perdono e della riconciliazione in una società che è fondata e programmata sulla discriminazione e disuguaglianza istituzionale che non lasciano vivere. Il secondo interesse della Chiesa, intesa come vescovi, sacerdoti e religiosi, è la tentazione di conservare il sopramenzionato stato dei privilegi nella società apparente, garantita, del resto, ai ministri di tutte le religioni. Temo che a questa tentazione non sia sottoposta solo la Chiesa di Sarajevo. Però, qui risulta drammatica perché, sin dall’inizio della guerra, ha causato una sottile e mai riconosciuta ma profonda e pericolosa divisione nella Chiesa stessa.
Il programma ecumenico delle diverse religioni
Bisogna sottolineare che i rappresentanti della Chiesa di Sarajevo cercano di cogliere tutte le occasioni per mettere in evidenza la propria disponibilità all’ecumenismo, prima di tutto con la Chiesa serbo-ortodossa. Per un certo periodo dopo la guerra, gli episcopi ortodossi e i vescovi cattolici si incontravano annualmente e trattavano i temi di comune interesse. Su iniziativa cattolica ogni anno viene organizzata insieme la settimana
della preghiera per l’unione dei cristiani. Per le grandi feste si assiste ad alto livello alle messe cattoliche e alle liturgie ortodosse. Anche con i capi della comunità islamica si scambiano le visite di auguri per le feste. Inoltre, esiste da anni a Sarajevo il Consiglio interreligioso, costituito sotto il patronato degli Stati Uniti dai capi religiosi della città di Sarajevo, che cercano, tramite questo Consiglio e le sue filiali in altre città del Paese, di promuovere e rendere popolare il dialogo tra le religioni presenti in Bosnia ed Erzegovina. I mass media e le istituzioni politico-statali appoggiano il loro lavoro. Però, tra i sacerdoti e fedeli non si registra una grande eco. Anzi, si nota una certa resistenza causata, temo, dal modo in cui il Consiglio lavora.
Ombre e luci nella Chiesa cattolica
Il problema di fondo per la Chiesa cattolica a Sarajevo è il rapporto poco chiaro con i partiti politici. Questo problema è comune a tutte le Chiese e comunità religiose in Sarajevo e, più o meno, in tutta la Bosnia ed Erzegovina. I partiti nazionali e transnazionali sono in tutto e per tutto contrapposti, in modo da non trovare punti d’accordo in nessun settore della vita. Però, nella loro lotta per il potere cercano di servirsi dell’aiuto dei rappresentanti religiosi, che a loro volta, evidentemente gelosi dell’importanza loro concessa e di qualche beneficio, diventano incapaci di un discernimento adeguato e, di conseguenza, di un ruolo profetico. Quest’approccio alla politica e ai politici, non di rado, si trasforma in un ostacolo per i rapporti interreligiosi autentici e fruttiferi.
Tutto questo bagaglio proietta un’ombra negativa sul grande impegno della Chiesa in campo pastorale, umanitario ed educativo. La Chiesa in Sarajevo serve la povera gente tramite le cucine popolari della Caritas e del Pane di Sant’Antonio senza fare la differenza tra cattolici e non cattolici. La stessa regola vale nelle sue istituzioni educative, case per i bambini orfani, studentati e case per gli anziani. Sembra strano, ma è così, la Chiesa in Sarajevo risulta più efficace nella pratica che nella teoria. Spero e auguro che proprio questo fatto sia il pegno per un futuro migliore dei cattolici in questa città e in questo Paese.
Pero Sudar
vescovo ausiliare di Sarajevo