Il cronista, il lettore e la cronaca nera
I delitti sono perfetti soprattutto d’estate. Il giorno dopo li possiamo leggere comodamente sotto l’ombrellone: arrivano le ferie, possiamo finalmente gustarci ogni ritaglio di giornale, ogni succulenta ricostruzione. La svolta nelle indagini sul caso Yara; Motta Visconti: un uomo stermina la famiglia e va a vedere la partita della Nazionale; Avetrana: il delitto Sarah Scazzi; Garlasco e Chiara Poggi. Tutti d’estate. Senza contare le innumerevoli giovani donne scomparse e ritrovate morte. Drammi tremendi. Che ci ritroviamo a seguire forse per esorcizzare i nostri. E meglio di un romanzo d’appendice, il fatto di sangue evolve ogni giorno con nuove rivelazioni. Lo seguiamo con apprensione fino all’epilogo, la confessione del colpevole, gli indizi che inchiodano il sospetto. Senza aspettare il giusto processo, che ha tempi troppo lunghi e dinamiche troppo complesse per i meccanismi della suspence della domenica (o dell’estate). Chi ha letto avidamente i particolari del triplice omicidio di Motta Visconti con l’analisi psicologica del reo confesso Carlo Lissi – marito e padre delle vittime – fatta dalla lettura della sua pagina Facebook (!) o si è perso tra gli amori e le pieghe della vita di Ester Arzuffi, la madre dell’ora noto Ignoto 1 Massimo Giuseppe Bossetti, presunto omicida di Yara Gambirasio, o anche solo ricorda di essersi soffermato sul plastico della villetta di Cogne nello studio di Vespa, non si deve lamentare dei giornalisti. Loro producono ciò che il pubblico chiede. Certo, hanno la pesante responsabilità di spostare il velo un po’ più in là sulle miserie umane. Hanno il vizio dei sillogismi fasulli: 1) Bossetti passa davanti alla palestra di Yara per andare al lavoro; 2) il Dna di Bossetti è stato rinvenuto su Yara; 3) Bossetti spiava e seguiva Yara (conclusione). Hanno la colpa di esagerare, di fornire particolari non necessari alla completezza della notizia, di scavare nelle abitudini sessuali, nei problemi di salute, in vicende della vita di coppia che nulla c’entrano con i fatti raccontati: tutti elementi sensibili coperti dallaàprivacy. Spesso il gioco del cronista, quando gareggia con un collega a «ce l’ho, ce l’ho, mi manca», il qual «mi manca» si traduce in gergo «ho preso un buco», amplifica la ricerca di risvolti, di retroscena, di testimonianze che alla fin fine dicono qualcosa, anche se non è rilevante. Senza entrare nel tema delle campagne mediatiche vere e proprie innescate per dirigere l’opinione pubblica in vista di un processo (si ricordi ancora Cogne e le comparsate di Annamaria Franzoni). E non è un caso che il Garante per la privacy sia intervenuto a tirare le orecchie alle testate che hanno sbandierato il Dna di Bossetti sulle loro pagine. A chi interessa sapere nello specifico la natura dei geni di uno che, tra l’altro, ha appreso dai giornali di non essere, a quanto sembra, figlio dell’uomo che chiama padre? La notizia, la cronaca, dovrebbe sempre raccontare fatti di interesse comune. Vicende di cui è utile informare la comunità. Né più né meno.
La cronaca nera (e giudiziaria) accompagna il giornalismo fin dai suoi esordi perché dà conto delle attività delle forze preposte a difendere il vivere insieme: la polizia, i carabinieri, la magistratura. Il delitto è la cicatrice della comunità, ne rompe le regole e la rinsalda, come un nemico comune. Poco male che faccia anche vendere i giornali e sia nella trinità delle «s» del giornalismo: sangue, sesso, soldi (essendo la quarta «s»: «Se l’Italia vince i Mondiali»). O che faccia parte di un intero genere letterario, il noir, declassato dai puristi – che evidentemente non hanno letto A sangue freddo di Truman Capote o anche solo L’avversario di Emmanuel Carrère in cui è raccontata la storia di JeanClaude Romand che uccise moglie, figli e genitori dopo una vita di menzogne e uscirà di prigione l’anno prossimo – insieme al porno e ai romanzetti d’amore: paura, passione, amore stimolano i liquidi, la parte più bassa dell’umanità. Non per questo meno umana.