La consegna e l’invito
«Adesso capisco… adesso, che è finito quel tempo, capisco il perché di alcune scelte… e anche cosa c’era in gioco». Siamo alla fine della riunione dei volontari della S. Vincenzo al Centro diurno «Il cortile» di Nembro. Qui gli anziani realizzano laboratori per bambini e ragazzi insieme agli educatori dello spazio compiti. «E lo racconto ai miei nipoti, che vivono tutto un altro tempo, quando vengono a trovarmi».
È sul finire, come spesso ai tramonti, che vengono in chiaro i giorni nel loro valore. Con i loro incontri, la loro spesa, la loro unicità. Come in una ricapitolazione: e i significati non colti, o solo sfiorati, emergono e tessono un racconto, e possono anche aprire gesti fatti di attenzioni e di novità, e di sospensione sul futuro. I giorni che finiscono tornano a fare spazio a nuove fioriture.
A Olmi, nei pressi di Treviso, da una quindicina d’anni attorno a una parrocchia conciliare si tessono le vite solidali di famiglie accoglienti e di famiglie affaticate. Di generazione in generazione: con una pratica quasi comunionale di tempi e di risorse, di attenzioni e di cura che tocca affetti e bilanci familiari. In questi ultimi anni riguarda in particolare la disponibilità di spazi abitativi per le giovani famiglie e i nuovi nati e le occasioni lavorative che, nelle transizioni del lavoro incerto e che manca, possono essere anche lavoro «sociale», su bisogni presenti nel paese, tra le persone. Le coppie più anziane garantiscono la saggia tessitura della continuità dell’esperienza, sono quelle che ri-offrono gli spazi delle case che si sono fatte troppo grandi o vuote, che amministrano i «fondi» per progetti, sostegni, intraprese.
In alcune regioni del centro-sud i pensionati della FNP (ad esempio nelle Marche e in Calabria, ma anche altrove) si vanno organizzando per incontrare le ragazze e i ragazzi che mandano i curricola alle sedi del sindacato. Per conoscerli, consigliarli, indicare percorsi da provare nei difficili passaggi sul mercato del lavoro. Ora provano anche a mettere insieme e a disposizione dei giovani le loro esperienze e competenze per supportare l’avvio di piccole imprese artigiane, di iniziative economiche e lavorative, di esperienze di economia sociale.
Lo fanno perché lo trovano giusto, e ne provano il gusto. Lo fanno come esercizio di libertà e di vita. E perché: «adesso siamo gelosi del nostro tempo», che non va sprecato o svuotato, va tenutoàcarico di cura, di coltivazione, di attesa buona. Apprendimento del vivere, ancora in nuovi inizi, accanto a chi incespica o a chi s’avvia. Con passione leggera, come seminando fiducia e speranza più che certezze e volontarismi. I giorni possono tornare a farsi carichi di vita e di incontri, d’una pienezza. Ognuno pare nuovo, primo; e ognuno potrebbe allora essere anche l’ultimo.
Gli anziani incontrano così il futuro, semplice e concreto, di giovani uomini e giovani donne. Lo incontrano scoprendo il proprio futuro, la propria facoltà di futuro che è quella del futuro anteriore. «Sarò stato» con te e per te, con voi sulla soglia del vostro avvio. La vita anziana può ritrovarsi, in stagioni di compimento che sono sospensioni sul futuro anteriore, sull’inedito.
Il tempo degli anziani ha tratti che sono propri di questo nostro tempo, del deriva-tempo del mondo contemporaneo. Il tempo di un compimento, di una fine, di un’uscita da equilibri, progettazioni, vincoli e significati dell’età passata. Che a volte a qualcuno sembra quasi una deriva.
Nel nostro tempo chi ha già molto vissuto avverte soprattutto ciò che si è lasciato, che è superato, la dissolvenza delle prospettive di ieri. Si fatica a lasciare, per un a-venire incerto, sul quale pare di non potere esercitare una presa, un’azione. Ci si trova come allo scoperto, in un attraversamento che non si sa bene come abitare.
Molte donne e uomini anziani si sentono come senza casa, fuori dal tempo, impacciati e ai margini di tensioni e comunicazioni che attraversano le vite dei loro contemporanei.
Ma, forse, queste donne e questi uomini non sono altro che il punto più sensibile di una convivenza che vive da un po’ «senza casa», in un tempo in cerca di forma, di storia e racconti, di speranza. Dove incontri e comunicazioni si fanno insieme molto densi e molto incerti. Martin Buber ne Il problema dell’uomo (LDC, Torino-Leuman 1983) parla di «età della casa» e di «età senza casa». Nelle prime le convivenze umane abitano mondi ordinati, nei quali sono definiti senso del tempo e della storia, un orizzonte etico condiviso, fronti di discussione e anche di conflitto conosciuti, parole il cui significato è generalmente condiviso. Come nell’età della modernità piena, dei diritti universali, dello sviluppo, del lavoro e del salario, quella alle nostre spalle. Che è quella nella qualeàgli anziani e le anziane di oggi hanno narrato le loro giovinezze e le loro età adulte. Nelle «età senza casa» prevalgono l’incertezza e l’ansia, il cammino e la ricerca, il disorientamento e il rancore, il pluralismo e gli arcipelaghi di senso.
Nelle età senza casa si vive la consumazione d’un tempo (e anche dei sogni e dei modi del suo cambiamento) e il senso dell’aperto, a volte il legame a una promessa. Come nell’esodo: tempo grande e fecondo, sofferto e difficile, prezioso e capace di anticipo.
Nell’esodo, certo, emergono anche rancori e risentimenti, chiusure e separazioni, ma si evidenzia la resistenza delle fedi e delle speranze, delle fedeltà e delle cure reciproche, anche tra le generazioni. Cure finalmente riscoperte, come la necessità di legarci gli uni agli altri in carovana. Con concrete solidarietà che fanno stare creativamente nel viaggio; con attenzione a non perdere gli orientamenti verso una terra promessa, buona, fraterna, accogliente e giusta. Come traspare nell’anticipo concreto e intelligente di pratiche di fraternità, di giustizia, di reciprocità e di impegno intelligente (delle cose e del legame tra le persone). Anticipo che punteggia il cammino in esodo. In esodo si vive e si pratica la promessa.
O almeno, lo si può fare, lo si può faticosamente e sorprendentemente scoprire come una possibilità dei giorni fatti incerti e aperti. Specie se si ha l’età nella quale il futuro più che progetto ed esperienza è annuncio e consegna, lascito e augurio. Età nella quale la memoria è passato e setaccio, ricapitolazione e trattenimento delle cose che davvero «valevano la pena». E che possono essere serbate e consegnate con forza e con cura.
Certo, il futuro incerto, il presente senza orientamento, il passato ormai lasciato possono alimentare anche amare nostalgie, rifugi rancorosi in orizzonti rattrappiti. In spazi interiori senza respiro. In esodo la vita anziana è esposta in modo particolare alla prova degli offuscamenti, delle visioni miopi, del legame soffocante, della chiusura senza futuro. In modo particolare è esposta alla durezza di questo che è anche tempo di rancori e di un certo cinismo, preso dai risucchi in paure e sentimenti negativi. Le loro ragnatele a volte catturano le interiorità di donne e uomini, le comunicazioni tra le generazioni, i comportamenti sociali. Il rancore è corrosivo, «si ritorce sempre, cieco, contro ciò che potrebbe salvarlo», come scriveva per un altro tempo d’esodo Marìa Zambrano (L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia, 2009). Distrugge, il rancore, principi e valori.
Ma contro il riemergere negli uomini e nelle donne dei «fondi oscuri» propri d’ogni tempo d’esodo, fiorisce però la libertà delle testimonianze di chi sa farsi passatore e sa vegliare le condizioni per nuovi inizi e le promesse d’orizzonti che saranno d’altri. E su questo incontra la libertà delle responsabili azioni d’inizio di chi verso il futuro allora s’avventura con la consegna d’un desiderio buono, di un invio, d’una attesa. D’un lascito riconosciuto e ricevuto. Erede di quei «sogni interrotti», a volte spezzati, di tante donne e tanti uomini buoni e giusti del passato, che sono stati capaci di inizio e di resistenza: interpreti trasparenti e generosi dell’avventura del vivere e della verità dei legami. Qui sta l’incrocio fecondo, possibile e già reale, tra la generazione anziana e la generazione giovane. Incrocio tra vite e tempi diversi che possono riconoscersi tali ed evitare assimilazioni o contrapposizioni.
Qui si contrasta la sterilità di un tempo che non si tesse più tra le generazioni, che si manifesta nel rivendicazionismo ottuso dei diritti acquisisti, nella nostalgia rancorosa, nella disperazione dell’abbandono di tante vite anziane, e nel cinico arrivismo, nell’irresponsabile mancanza di visione e di respiro relazionale, nella fuga in una libertà immaginaria fatta di consumi e «profili» e opportunismi di tante vite giovani.
Sterilità, incapacità di discernimento, di generosità, di dedizione e di incanto. Incapacità di decidersi a nascere di nuovo, di iniziare. Incapacità di compiere, di seminare, di lasciare. Incapacità di incontrare la propria vulnerabilità.
Alla periferia di Bergamo una rete di un centinaio di persone anziane da diversi anni tiene viva un’esperienza che è all’incrocio tra una banca del tempo e una rete diffusa di prossimità. Da un altro funziona come una discreta e molto concreta rete di veglia sulle condizioni di fragilità, di debolezza, di solitudine e crisi. Rete tenuta viva da chi ha ritmi e tempi di vita lenti, feriali e attenti, percorre le strade a piedi, ascolta. E possiede la capacità di tenuta delle relazioni e di visita nei condomini; sta nei vicinati, nei parchi, nei negozi di quartiere dove si raccontano, incontrano, segnalano le svolte e le fatiche, i silenzi e i bisogni.
La rete de «Il Volto» (questo il nome dal sapore lévinasiano che è stato dato) raccoglie anche le disponibilità di tempi, competenze, risorse, beni utili per tessere accompagnamenti, sostegni, luoghi di incontro, piccole esperienze di sollievo e vacanza, lavoretti e cure domiciliari.
A Bologna da alcuni anni è nato il «via Fondazza Social Street», dall’idea di un signore che ha pensato di tessere vicinato e prossimità utilizzando abilità informatiche di base creando un gruppo Facebook. Con un forte successo: 910 persone residenti nella via o legate ai residenti si sono connesse, si sono presentate e conosciute. Via via hanno cominciato a parlare della loro vita, a scambiarsi consigli, informazioni utili. A organizzarsi meglio, a scambiarsi attenzioni, gesti, disponibilità e presenze. A visitarsi, a prendersi cura di figlie e anziani, a organizzare acquisti solidali e a offrirsi per piccole manutenzioni, per compagnie, per condividere il gusto per il disegno, il ricamo, la musica.
Il nucleo forte operativo è rappresentato da anziani: il quartiere è popolare, ha un’età media elevata, anche se ci sono famiglie giovani con figli. Il «presidio» informatico è di questi giovani adulti, ma la tessitura di gesti usciti da spazi di privatezza e solitudine dentro le vite quotidiane è dei più anziani.
Forse alla vita anziana è possibile oggi apprendere una forma particolare dell’azione, dell’iniziativa e dell’intenzionalità. Proprio nella stagione della vita caratterizzata dal diminuire, dal declinare, dal lasciare (responsabilità, ruoli, possibilità, capacità, determinazioni) si può apprendere a vivere un’azione che non prova tanto a incidere e trasformare la realtà quanto a garantire una sorta di veglia e di cura, una chiarificazione dei problemi e una riconciliazione.
Un’azione del genere entra nella vita quotidiana come una reinterpretazione ospitale e fraterna dei gesti e degli incontri, delle cose e degli spazi. Questa azione più che proporre, distinguere, costruire, intraprendere è un luogo di attestazione, una riserva di ciò che vale davvero.
Donne e uomini ricchi di anni e di esperienza, di realizzazioni e di confronto con il limite e lo scacco, consapevoli di non controllare e di non poter determinare tutto, sviluppano quella che, sulla scia ricoeuriana, potrebbe essere definita una azione deponente. Una azione nel limite, una fioritura di relazionalità, una apertura di novità e recettività. Azione in ascolto avrebbe detto Vincenzo Bonandrini (I giorni e l’evento, Cens, Milano, 1996).
Azione deponente è quella azione che accompagna e rispetta, senza esercitare una presa troppo forte sulle cose, sulle persone, senza esprimere un desiderio troppo deciso di ricomposizione. Non cerca efficacia, non esprime intenzionalità, controllo tecnico, progettazione: lascia essere, pur se non «lascia stare». Coltiva, osserva, coinvolge, promuove e avvia; resta discosta ma non abbandona.
«Depone a favore», si potrebbe dire, perché mentre agisce mostra e svela ciò che è in gioco. E richiama ciò che è risorsa, ciò che può essere il desiderio della vita, quella «normale» e quotidiana, anche nelle situazioni prostrate, segnate da ferite e fallimento. Attiva una deposizione «a favore», laàesprime nella pratica, nel coinvolgimento.
È una passione paziente, attenta e disincantata, eppure dolce e misericordiosa quella che così si esprime. Da parte di uomini e donne anziani che assumono il rischio e la responsabilità, che rinunciano all’esercizio di forzature che possono farsi violente, che lasciano gli specialismi e le frammentazioni dell’agire utilitaristico. L’impotenza che si sente accolta e non inacidisce; la pratica è una prova di risposta, di ricerca dentro ciò che la vita ancora offre e chiede.
Nell’impegno e nell’esperienza di essere presenti a sé, all’altro, nel mondo le persone si trovano a essere lì dove devono essere: attive e creative, capaci di fare spazio, di far essere, di aprire tempo.
L’azione deponente non prende forza da una dimostrazione di ciò che è più giusto, o più efficace e conveniente, o migliore. La ricava, invece, dall’attestazione di ciò che credono le persone che la sviluppano. E che mostrano vivendola. Criteri di valore, attenzione all’altro, riconciliazione e incontro: ciò che vogliono attestare le donne e gli uomini si svela in ciò che sono in grado di fare di nuovo, di provare a tessere, indipendentemente dal pieno compimento e senza l’illusione di poter disporre di sé, degli altri e del mondo. Quello che si realizza è attestazione di un reale possibile, e della bontà che porta con sé per le persone coinvolte.
Questo agire è vicino al generare. È anche questione di sguardo: di guardare a come far nascere del tutto ciò che già matura attorno a noi, e che necessita di responsabilità e cura.
Attestare è vicino alla capacità di credere e al testimoniare, ne accentua la dimensione costruttiva ed operativa. Attestare, a volte, è sapere bene che non si parteciperà dell’esito, che questo è parte della dimensione dell’offerta, del dono. Della testimonianza di sé: in un’azione che diventa, appunto, consegna. E a volte avvio, solo qualche volta accompagnamento. Un agire che è un lasciare.
Ivo Lizzola
preside della facoltà di scienze della formazione,
università degli studi di Bergamo