All’armi

di Cavadi Augusto

Possedere armi, o per lo meno averle a disposizione e saperle adoperare, è stato per millenni un privilegio. Quando con la rivoluzione francese di fine Settecento e la successiva fase napoleonica di inizio Ottocento, nacquero le «Guardie nazionali» e gli eserciti popolari, l’equazione cittadino = soldato apparve, e fu, un progresso civile. La biografia dello stesso Bonaparte acquistò una valenza simbolica: generali, capi di governo, imperatori si diventa per meriti, non lo si nasce per caso. Gli storici osservano che la diversità di motivazioni fra soldati francesi, che combattevano con convinzione per la liberazione della propria patria, e soldati prussiani e austriaci, che combattevano per soldi agli ordini di sovrani autoreferenziali, contribuì non poco all’esito della guerra. Quando a Valmy l’esercito popolare francese batté gli eserciti mercenari invasori, Goethe osservò – con una punta di esagerazione tipica dei letterati – che da quella data, e da quel luogo, iniziava una nuova era del mondo. Una conferma del detto giapponese che il cane difficilmente raggiunge la lepre perché il cane corre per il padrone e la lepre per sé stessa.

Proprio la vicenda della Francia rivoluzionaria, che in pochi anni diventa uno Stato imperialista, ci ammonisce sulla dialettica dell’arruolamento di massa: da diritto diventa dovere, da missione civica diventa massacro insensato. I Malavoglia di Verga non costituisce l’unico documento di come la povera gente considera l’obbligo di prestare servizio militare: una corvée arbitraria che privaàle famiglie di braccia, e di menti, giovani e valide, per destinarle ad avventure suicide (come in effetti saranno per l’Italia la prima, e ancor più la seconda, guerra mondiale).

Tutta la battaglia per l’obiezione di coscienza rispetto alla coscrizione militare obbligatoria, che ha visto impegnate in Italia figure di altissimo livello di varia estrazione ideale, da Aldo Capitini a don Lorenzo Milani, ha portato prima al diritto di sostituire il periodo di leva con un servizio civile, poi all’abolizione della leva obbligatoria e alla formazione delle Forze armate esclusivamente su basi volontarie. Un risultato positivo, senz’altro: ma del tutto privo di risvolti problematici?

Il processo sociale, incrementato anche dal processo tecnologico, per cui una minoranza di cittadini avrà in mano l’esclusiva dell’uso delle armi, riproduce un pericoloso dualismo pre-moderno: da una parte un’élite di specialisti della difesa (ma anche dell’offesa) armata, dall’altra la maggioranza della popolazione. Sino a quando i meccanismi democratici, più o meno, funzionano, la situazione può considerarsi accettabile: ma quando, per iniziativa di un uomo forte, si dovessero inceppare? Senza immaginare scenari fantapolitici (per altro abbondantemente realizzati nel XX secolo in Europa: franchismo, salazarismo, guerre balcaniche dopo la morte di Tito…), già oggi le richieste dei vertici militari al ceto politico lasciano trasparire toni diversi rispetto alle richieste di altri settori della società:àse vi chiediamo di investire milioni di euro sugli F 35, sottraendoli alla spesa sociale, vi conviene ascoltarci perché voi non avete le competenze tecniche per capire che cosa è necessario alla vostra stessa sicurezza…

La problematica appare dunque complessa e meriterebbe un’attenzione riflessiva che non risulta diffusa. Un’ipotesi di lavoro – teorica ma anche pratica – sarebbe di bilanciare l’esercito dei volontari in armi con un esercito, molto più consistente numericamente, di volontari disarmati. È in questa direzione che vanno le esperienze di Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) di cui parla anche il mio fraterno amico Andrea Cozzo nel suo Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Mimesis, Milano 2004): «Organizzare strutturalmente forme di intervento nonviolento in conflitti sia nazionali che internazionali, tanto in caso di coinvolgimento diretto, come parte in gioco, quanto in casi di coinvolgimento dall’esterno, come terza parte che prende posizione in un conflitto fra altri. In entrambi i casi, esaurite le risorse offerte dalle attività diplomatiche istituzionali, il monopolio della gestione del conflitto smette di essere dello Stato e passa alla società civile, adeguatamente formata e organizzata» (pp. 266-267, ma vedere i dettagli sino a p. 294).