La consegna di un deposito antico

di Stefani Piero

Tradizione e religione

Contaminazione

L’inserimento di nuove generazioni nella comunità di origine è assillo specifico di ogni tradizione religiosa. A dirlo è proprio la parola: «tradizione». Essa, per definizione, presuppone una trasmissione nel corso del tempo. Nel mondo delle religioni da millenni non esiste più un terreno vergine. Pure in questo campo abbiamo antenati da cui discendiamo. Anche il nuovo nasce da quanto c’è già. Come scrive Matteo: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie» (Mt 13,52). Persino la novità più alta («il regno dei cieli») presuppone una qualche continuità.

La constatazione resta vera, sia pure in modo più dialettico, anche quando sorge una nuova religione che si contrappone a una precedente: la si combatte, ma si rimane debitori nei suoi confronti o quanto meno si introietta qualcosa proveniente dai propri avversari. Gli esempi in proposito sono molteplici. Basti pensare agli influssi «pagani» confluiti nel cristianesimo, presenti persino in alcune delle sue più riconoscibili componenti simboliche come la data del Natale (derivata dal «Dies natalis Solis invicti») o la basilica, divenuta luogo di riunione liturgica. Lo stesso vale per l’islam rispetto al mondo arabo pagano; nei suoi confronti fu praticato l’ostracismo più drastico e violento, eppure molti riti del pellegrinaggio alla Mecca derivano da quella precedente matrice. Il fatto stesso che siano state proposte procedure per islamizzarli è spia della presenza di strati precedenti.

Religione è appartenenza e scelta

Quando l’attenzione si concentra sul passaggio tra generazioni quel che sta davvero a cuore, però, non è tanto l’inizio di un nuovo cammino quanto l’inserimento di chi viene dopo in un itinerario già segnato. L’istanza è comune; eppure i problemi non si presentano allo stesso modo per tutti i sistemi religiosi. In questo caso infatti le procedure non sono uguali in ogni area; in larga misura esse dipendono dalla definizione che si dà di sé stessi. Per comprenderlo basti pensare alla fede cristiana. Il credere nell’evangelo non si presenta mai semplicemente né come una forma di vita ereditata, né come un modo per conformarsi alla società in cui ci si trova. Se così fosse esso perderebbe il suo significato più profondo. In tal caso la fede diverrebbe solo una forma di cultura o, appunto, di religione, termine derivato (secondo il suo etimo più ripetuto, già presente in Cicerone – De inventione 2,161) dal verbo religare: legare, fissare, annodare. Nel cuore del cristianesimo resta presente una spinta a oltrepassare la pura appartenenza. Anche per questo parlare, a proposito di fede cristiana, in termini di «identità» è quanto meno ambiguo o rischioso, ammesso che, come avviene nei casi più esasperati, non si tratti di un vero e proprio tradimento. Ma non ovunque le cose si presentano allo stesso modo. Per esemplificare l’affermazione accenneremo solo a due universi religiosi: quello cristiano e quello ebraico.

La fede non si eredita, non si conforma

«Ebrei si nasce, cristiani si diventa». In questa frase è detto tutto, anzi troppo. Perché è pur vero che il nascere in un ambiente cristiano è una precondizione di norma consueta per diventare in proprio credenti; mentre nascere ebrei non coincide di per sé con la via percorrendo la quale si diventa «buoni ebrei». Tuttavia la prospettiva secondo cui nessuno nasce cristiano resta un punto di riferimento imprescindibile. In effetti non si nasce credenti, mentre non si può dire lo stesso per l’essere membri di una comunità religiosa. A rendere un individuo membro di una Chiesa è il battesimo che presuppone la fede, non l’uscita dal ventre materno. Si tratta di un punto fermo mai messo in discussione in linea di principio, ma per secoli largamente negato sul piano dei fatti. Non a caso le indagini demografiche su epoche a noi precedenti si affidano, in varie occasioni, ai registri del battesimo. Per un lungo lasso di tempo, nascita e battesimo nell’Europa cristiana sembrarono coincidere. Ora tutto ciò è largamente tramontato. Tuttavia neppure allora fu solo così. Il fatto stesso di precipitarsi a battezzare il neonato al fine di garantirgli la vita eterna, dimostrava di per sé che essere messo al mondo non è la stessa cosa che rinascere in maniera sovrannaturale.

La questione di chi è ebreo è fondamentale, specie a partire dall’epoca moderna. Essa evidenziaàbene il fatto che l’ebraismo non può prescindere dal domandarsi quali siano i rapporti che esistono tra l’appartenenza a un popolo e l’assunzione di una prassi religiosa che comanda di seguire determinati precetti. Varie volte si è posto il rilievo che una delle più tipiche opzioni ebraiche sta nel trasformare in libera scelta la dimensione oggettiva in cui ci si trova quando si viene al mondo: è ebreo il figlio di madre ebrea. Ciò comporta far propria, soggettivamente, la condizione determinata dall’ambiente in cui si è nati. Secondo un motto celebre, si tratta di diventare quello che si è. Ci sono però molti modi per farlo. Essi infatti variano da periodo a periodo e da orientamento a orientamento. In ogni caso anche in ambito ebraico vale l’idea che vi è un senso autentico di tradizione solo se la si intende in modo dinamico. Da qualunque parte ci si collochi quando prevale la staticità e la pura conservazione, si dà tradizionalismo e non già tradizione.

Piero Stefani
teologo,
docente di filosofia della religione università di Ferrara
e di giudaismo presso la Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale di Milano