A proposito della tradizione

di Illetterati Luca

Lettera a un amico

Caro A.,

mi chiedi della tradizione e, conoscendo le mie ossessioni, del suo legame con quell’atto complicato e straordinario che è la traduzione.

Perdonerai se sarò spesso assertivo, nel mio dire le piccole cose che proverò a dirti. Dove vedrai delle insufficienze (e saranno molte) come sempre segnalamele. Vedrò se saranno insufficienze che possono essere integrate o segni più radicali di una mia faciloneria nel pretendere di tirare dritto dove invece è necessario indugiare.

Tradizione/traduzione, per esempio

Vorrei partire dal cristianesimo. Il concetto di tradizione è decisivo e fondamentale all’interno della costellazione delle parole chiave del cristianesimo e del cattolicesimo in particolare. Il cristianesimo è certamente religione del libro, ma insieme – e qui sta, ritengo, la sua specifica differenza e la sua formidabile potenza – è religione della tradizione. Non nel senso che la tradizione (secondo una lettura sempliciotta) stia semplicemente accanto alla Scrittura integrandola, ampliandola o magari (come talvolta si è creduto) correggendola. La tradizione è piuttosto la consapevolezza che la Scrittura, in quanto rivelazione, è il farsi carne e corpo, e dunque necessariamente tempo, della parola divina.

In questa struttura davvero complessa è depositata ovviamente una straordinaria ambiguità. Perché da un lato il farsi corpo che abita nel tempo da parte della Scrittura implica il suo tradursi in una forma di ingabbiamento della storia, di sua comprensione all’interno di una linearità in cui ciò che appare in qualche modo incoerente rispetto a essa diventa scarto, margine inconsistente, carne da macello (e non è una metafora); dall’altro lato facendosi corpo che abita nel tempo la scrittura accetta come costitutiva di sé, come elemento che fa parte del proprio modo d’essere, il suo essere necessariamente tradotta, il suo farsi altro da sé, il suo non poter rimanere immune e pura rispetto alle differenze di cui il tempo si nutre, di cui il mondo degli uomini è l’espressione più radicale.

In qualche modo – proverò a spiegare in che senso – la consapevolezza di essere tradizione è per il cristianesimo la consapevolezza che la Scrittura per vivere nel tempo, deve essere fin dall’inizio, tradita.

Traditores, tradire, consegnare

Presso le comunità cristiane che vivevano a Roma nel III e IV secolo d. C. i traditores erano coloro che, per evitare le persecuzioni, consegnavano i testi sacri alle autorità romane. In questo tradimento che è connesso alla traditio, il testo rivelato viene ripudiato, espulso, ma viene anche consegnato a un altro; si fa altro: rimanendo sé stesso si trasforma nelle mani dell’altro a cui viene consegnato.

Forse può apparire solo un gioco di parole, ma io credo davvero che pensare la tradizione nel suo significato anche teologico più radicale (e tu sai meglio di me quanto i significati teologici abitino le nostre parole sempre più di quanto noi si pensi) implichi pensare nel modo più crudo possibile alla necessità per permanere nel tempo, per salvarsi dalla rovina che il tempo rappresenta, di essere consegnato ad altri, di essere preso in custodia anche inconsapevolmente da altri; di essere insomma tradito, senza sfuggire all’ambiguità che questa espressione incarna e che contiene l’atto del consegnare, del dare ad altri, ma anche l’atto del venir meno a una parola data. Tradere, non a caso, è la parola con cui nella traduzione latina dei vangeli viene detto l’atto compiuto da Giuda. Giuda, infatti, è colui che, tradendo, consegna Gesù a quel mondo che non lo riconosce come Messia. Ecco io credo che pensare alla tradizione, significhi pensare alla necessità di Giuda, alla necessità del traditor, nel senso appunto ambiguo di colui che consegna e tradisce, di colui che concede sé all’altro e che in questo concedersi sopravvive nell’altro da sé.

La prima sfida del cristianesimo, la lingua greca

Il Cristianesimo è religione della tradizione per eccellenza perché essa è parola che accetta di sporcarsi e infangarsi, fin dall’inizio, nella traduzione.

Buona parte del Nuovo Testamento, come è noto, è scritta in greco. Ed è evidente che già l’uso della lingua greca è un elemento decisivo nella storia del cristianesimo e, dunque, nella storia dell’occidente. Parlando in greco, infatti, facendosi testo greco, il cristianesimo accetta la sfida della differenza, accetta la sfida di farsi altroàda sé, di rappresentarsi attraverso una struttura linguistica che non riflette il mondo originario – che è appunto quello ebraico – dentro il quale il cristianesimo sorge. E accettando questa sfida, non indietreggiando cioè di fronte agli ovvi pericoli della contaminazione, il cristianesimo si trasforma e diventa capace di entrare dentro mondi culturali, linguistici e concettuali profondamente diversi da quello da cui proviene. Nel farsi greco, cioè, il cristianesimo accetta di separarsi da quello sfondo imprescindibile dentro cui solamente esso può sorgere, che è il mondo ebraico. Non nel senso che lo abbandoni, questo sfondo (anche se spesso lo dimentica). Non si capirebbe nulla del cristianesimo se non si tenesse conto di questo sfondo. Ma a un tempo il cristianesimo è la consapevolezza che per essere davvero sé stesso, per affermarsi come parola che pretende di valere universalmente, questa parola deve uscire da sé, deve farsi altro da sé, deve diventare differente rispetto a sé stessa.

Se il cristianesimo è la religione che più di qualsiasi altra ha intaccato le più diverse culture ciò è inestricabilmente connesso alla consapevolezza di questa necessità della traditio che è anche, sempre, consapevolezza della necessità di tradursi. Una necessità niente affatto, ovviamente, priva di problemi. La traduzione, infatti, non è mai semplicemente e solamente il passaggio di un significato che sussiste per sé da un significante dato a un altro significante dato. Il tradurre implica il fare i conti con il modo in cui all’interno di una lingua un significato si deposita all’interno di un significante, portandosi dietro relazioni concettuali, usi, abitudini, tradizioni, appunto, che non sono semplicemente trasferibili attraverso una mera ricollocazione. Il significante di una lingua non è mai un semplice involucro neutro e asettico dentro cui noi possiamo infilare e impacchettare dei significati puri. La parola in ogni lingua riflette, nella sua stessa forma, la storia da cui proviene, le urgenze che l’hanno determinata, le condizioni generali della lingua e della cultura dentro cui agisce.

Tradizione è anche risorsa imprescindibile

Insisto su questo, A., perché dentro questo intreccio mi sembra si riesca forse a sciogliere un po’ l’idea di tradizione come insieme di norme, come gabbia dentro la quale siamo perlopiù costretti a muoverci, come la struttura che ci determina, indipendentemente dal nostro voler essere determinati. E a vedere invece la tradizione come risorsa, come possibilità di scoprire la necessità dell’incessante trasformazione che solo il rapporto con la differenza è in grado di provocare.

Il problema, a me sembra, è essere consapevoliàdel nostro essere sempre immersi dentro un mondo di significati che ci vengono consegnati. Perché è solo questa consapevolezza che ci permette uno sguardo critico verso di essi. Ed è solo questa consapevolezza che ci rende attori di una tradizione; che ci rende cioè capaci, se mai ne abbiamo i mezzi e la forza, di romperne e spezzarne le regole, di mostrarne i limiti, le insufficienze, i profondi pregiudizi che la abitano.

Sai, A., penso sia questo il problema per noi oggi più drammatico; intendo, non il fatto che noi si viva e si agisca dentro una tradizione vincolante, dentro confini angusti segnati appunto dalla tradizione a cui siamo stati consegnati. Intendo piuttosto questo nostro pensarci e ritenerci oggi fuori da qualsiasi tradizione, oramai liberi dai vincoli che le tradizioni implicano, abitanti di una dimensione globale in cui non c’è più una scrittura, un segno, una grammatica che riconosca come determinante quello che siamo.

Tradizione e storia

Qualche tempo fa Giorgio Ficara ha scritto una recensione del volume di Giulio Ferroni dedicato alla letteratura del Novecento e dei primi anni di questo nostro secolo e notava come lo storico della letteratura contemporanea si trovi oggi a fare i conti con una scrittura che in qualche modo ha reciso i legami con la tradizione. Solo che in questo allontanamento, osservava, c’è un problema: che esso non si presenta come un processo di consapevole frattura e distacco. Semplicemente un po’ il mercato, un po’ la proliferazione, un po’ i mescolamenti tra letteratura alta e bassa ha come sciolto gli scrittori dal legame con la tradizione.

Non sembra anche a te che questo sia vero al di là del caso specifico della letteratura contemporanea?

Questo strano congedo dalla tradizione è un atto straordinariamente carico di conseguenze e appare, mi sembra, imparagonabile a tutte quelle ribellioni nei confronti della tradizione che hanno animato le avanguardie di tutti i tempi. Forse questo congedo è, per la prima volta, davvero tale; e lo è proprio in quanto non è avvertito come tale. Quella che si è consumata non è, cioè, una scissione o una frattura nella tradizione o rispetto alla tradizione.

La tradizione è piuttosto semplicemente un’assenza. Al massimo, la tradizione (e dunque la storia) appare oggi come un enorme serbatoio esposto a un’interminabile reinterpretazione e gli attori che si rapportano a essa sono più o meno (l’immagine è di Ficara e gliela rubo) come dei pirati all’arrembaggio di navi disponibili e disarmate. La tradizione, a noi, in questo tempo, si palesa come una sorta di MegaStore aperto giorno e notte.

Storia senza tradizione?

Finché ci si muove dentro la tradizione ogni atto è in qualche modo una risposta a qualcosa che viene consegnato. E questo, perdona, ti prego, la rozzezza del mio procedere, fa la storia. Anzi, se ci pensi, possiamo raccontare una storia, solo dove c’è una tradizione. Allora quello che entra in crisi attraverso questo quieto congedo dalla tradizione (un po’ come la musica new age dentro le saune delle spa) è l’idea stessa di una storia. Di una storia fatta di risposte e di reazioni, di fughe in avanti e di resistenze.

Senza tradizione sembra che la storia stessa in qualche modo svapori. Un’assenza, quella della tradizione, che ci rende certo leggeri, senza casse sulle spalle; e tuttavia anche, in questa leggerezza, terribilmente fragili, di una fragilità che non è prodotta dal peso, quanto piuttosto dalla sua totale assenza. Perché non avvertire il peso della tradizione svincola dalla necessità di pensare criticamente al proprio linguaggio, alla propria storia, alle proprie precomprensioni; a sé stessi. Come se fossimo aproblematici.

Ai nostri anni senza storia

Penso a questa situazione come a qualcosa che merita di essere pensato. Credo che noi si debba diventare capaci di leggere senza spocchia e insieme con sguardo spietato questi anni senza storia. Forse dobbiamo imparare a fare la storia di questi anni senza storia, dove tutto è contemporaneo. Perché ho come la sensazione che questi anni senza storia siano giunti al termine della notte. Ho come l’impressione, se posso abusare ancora delle immagini, che si sia definitivamente consumato il fluido che ha consentito in questi anni questa sorta di fluttuare leggero e allucinato senza direzione.

E allora o si cade e ci si frantuma, o ci si illude che un volo basso equivalga allo sguardo ampio di chi sta in alto. Oppure si prova a ritrovare la necessità di un significato attraverso un rapporto concreto con la realtà e i suoi bisogni.

E da dove si può ripartire, mi chiederai?

Senza rimpianti e nostalgie, senza le rancorose denunce nei confronti dell’evanescenza del contemporaneo, forse solo provando a concentrare lo sguardo su quei piccoli punti di gravità che si palesano nello scoppiare di tutti i palloncini colorati che ci girano intorno.

Ti abbraccio, L.

Luca Illetterati
insegna filosofia teoretica
all’Università di Padova