L’eucaristia della strada
A vent’anni dalla morte di don Tonino Bello
Alla fine di tutto dobbiamo raccontarci una verità finanche difficile. Sono stati necessari vent’anni per capire che don Tonino Bello è stato innanzitutto un uomo integro e un cristiano trasparente e che soltanto in un secondo momento è stato possibile riconoscerlo come prete e vescovo amorevole.
Molti tra noi non lo hanno nemmeno conosciuto. Io stesso lo ricordo in un’apparizione fugace nella mia città durante una manifestazione mattutina degli studenti della scuola in cui insegnavo per il primo anno, nella primavera del 1986. Però confesso che era sempre sfuggito dalla mia attenzione e che, soltanto dopo la sua morte, con quel funerale straordinario al porto di Molfetta, con decine di migliaia di persone stipate ovunque e assiepate sui balconi, sui terrazzi, sui pontili e sulle barche e con quell’enorme bandiera della pace ai piedi di un altare posto nel cuore della piazza adiacente al mare, noi abbiamo cominciato a scoprirlo.
Morendo, don Tonino cominciava a farsi conoscere, dopo che per molti, me compreso, era stato semplicemente un bravo vescovo del sud e un appassionato difensore della pace.
Ecco perché parlarne oggi può sembrare un atto quasi irrispettoso verso la sua memoria.
Abbiamo il compito del pudore, vale a dire di quel sentimento che ci lascia timidamente sulla porta della vita e della testimonianza di un uomo che rimpiangiamo di non avere conosciuto di persona e del quale adesso non possiamo parlare a vanvera. Non è la sua probabile beatificazione a renderlo venerabile, bensì la sua storia di fede in un Dio che si fa uomo e uomo reietto e soprattutto è quello che ne è restato. Troppe volte abbiamo visto le beatificazioni e le canonizzazioni produrre una devozione popolare astratta, nata soltanto in coincidenza delle proclamazioni. Invece ciò che contano sono le dichiarazioni di amore intenso di un popolo che, processi canonici o no, ha già dichiarato la sua fedeltà trascendente alla memoria di un uomo che si fa storia presente.
Ho ascoltato Nichi Vendola dichiarare che don Tonino è stato un’Epifania per una Chiesa e per un popolo. Ci credo, ma osservo che tutte le Epifanie sono orientate alla maturazione della fede dello stesso popolo e alla conquista del senso più profondo della propria dignità.
In questa trasfigurazione antropologica di un Dio sporcatosi volontariamente c’è tutta la spiritualità di don Tonino.
Parlava con quel suo stile così appassionato, scandendo parole e consonanti, usando la poesia per farsi capire dai più semplici, accarezzando le parole più difficili per consegnarle nella maniera più comprensibile. Non ho mai capito come la sua gente potesse intendere un uomo così innamorato di unàlinguaggio tanto fiorito e ricolmo di immagini folgoranti, ma anche apparentemente difficile. Eppure tutti capivano tutto.
Ecco, le immagini di don Tonino, oggi recuperate da chiunque e a volte anche a sproposito, restano al posto delle lettere pastorali che non ha mai scritto, forse per non appropriarsi di un dovere istituzionale, quello degli scritti ufficiali, che lo avrebbe fatto sentire su una cattedra che lo metteva a disagio.
Invece don Tonino scriveva lettere bellissime, faceva predicazioni appassionate e ascoltava tutti con una passione intatta. Da quell’ascolto dell’ultimità sgorgavano i pensieri più dolci e fulminanti.
Profumare di popolo
Nel profumo c’è una sensazione di fragranza che attrae e appassiona. Però non è facile innamorarsi del popolo, soprattutto quando esso è sgradevole, affannato e addolorato. Resiste solo chi associa l’amore di Dio al respiro e all’odore degli ultimi e quindi resistono davvero in pochi. Però è anche questo il senso di una scelta preferenziale che lui non aveva bisogno di tematizzare. Essa era inscritta nel suo essere e nel suo stile, era opzione definitiva. Conosceva la storia personale di moltissimi, entrava nelle case e ne respirava gli odori, a volte espressi dal profumo dolce delle cose buone, a volte terribilmente viziati dalla puzza delle cose cattive. Accettava tutti i profumi e tutti gli olezzi e questo suo passaggio di casa in casa rendeva superflue le lettere pastorali e i pronunciamenti «ex cathedra». Il popolo lo conosceva già e, con lui, ascoltava già una Parola di riscatto.
La Chiesa del grembiule
È la Chiesa della cucina e del ripostiglio, la Chiesa del fondo e del nascondimento, la Chiesa del lavoro più umile. Oggi tutti ne parlano e io avverto un grande timore di strumentalizzazioni, perché il grembiule della Chiesa di don Tonino è sempre sporco e non appartiene alla bellezza dei ricami.
Esso coincide con una concezione che implica responsabilità stringenti. Rivolto ai suoi preti, parla espressamente di tre impegni: condivisione, profezia, formazione politica.
In termini semplicissimi ciò significa che prima si sta con il popolo, poi lo si indirizza secondo la giustiziaàdel Regno e infine ci si forma tutti insieme alla costruzione del mondo giusto voluto da Dio. E questo costituisce una sfida enorme.
Pertanto la Chiesa del grembiule è la fatica ordinaria di essere popolo di Dio e di esserlo con le mani sporche. In questa intuizione c’è, a mio giudizio, l’anima del profeta che vede oltre, che guarda avanti, che passa al di là di ogni incrostazione devozionale e di ogni contaminazione giuridica.
In piedi, popolo della pace!
La pace come sintesi terrena della pace del Dio vivente era, per don Tonino, l’atto più straordinariamente utopico della vita cristiana e della responsabilità civile. Era la concretizzazione di un’idea che scendeva dal Cielo e si diffondeva sulla Terra. Era il Regno possibile.
Il suo ultimo viaggio, in qualità di Presidente di Pax Christi Italia, nella Sarajevo assediata dai serbi, è stata una dichiarazione di guerra alla guerra, ma non per un desiderio di velleità rivoluzionaria, bensì per un’assunzione ultima e definitiva dell’impegno per un mondo riscattato da quel Dio cristiano nel quale aveva sempre creduto come un bambino.
Dopodiché la chiamata a restare tutti in piedi è stata e resta il segno più bruciante della persona del cristiano che non si piega davanti a nessuna autorità, tanto più se iniqua e violenta.
Stare in piedi è difficile. Starci per una fede che pretende di rovesciare i potenti dai troni e di costruire la pace vera è ancora più duro.
Questo urlo, scolpito accanto alla sua tomba, ha qualcosa di veemente e di escatologico. Pretende di intimidire i violenti e i forti.
Hanno attribuito a don Tonino l’immagine splendida, da lui non coniata ma presumibilmente vissuta di persona, dell’Eucaristia della strada, quella che si celebra fuori dai santuari e dentro gli angoli più oscuri del mondo. In un certo senso questa definizione appartiene alla sua interpretazione di Chiesa. Il popolo cammina per la strada, celebra egli stesso la sua Eucaristia e la celebra nella strada.
La strada come luogo di conversione è il senso di ciò che è stato don Tonino Bello: quell’Epifania meravigliosa di quello stesso Dio. Quello che parte dal fondo, quello che si sporca volontariamente, quello che riscatta definitivamente.