Sudafrica

di Saracino Maria Antonietta

Estesa su una superficie di 1.219.090 km2, la repubblica parlamentare del Sudafrica ha conosciuto la libertà il 27 aprile 1994: l’A.N.C. (African National Congress) vince le prime elezioni multietniche, Nelson Mandela diventa presidente, viene formato dalla maggioranza nera un governo di unità nazionale. Il Sudafrica torna nel Commonwealth e riprende il suo seggio nell’Assemblea generale dell’Onu dopo 20 anni di assenza. La sua popolazione è di oltre 50 milioni di abitanti, per la maggior parte africani (79%), seguiti dai bianchi di origine europea (9,6%). La speranza di vita è di 49,5 anni, l’analfabetismo (sopra i 15 anni) del 13,6%. I cristiani sono il 79,7% della popolazione. Il 31,3% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, l’indice di sviluppo umano è pari a 0,619 (123° su 187 paesi), il Pil pro capite annuo è di 10.970 dollari.

Mondi a confronto

Fino a pochi decenni addietro l’immagine del Sudafrica diffusa dai mezzi di comunicazione era soprattutto quella di un vasto territorio di straordinarie bellezze naturali, clima piacevole, attraente per il turismo; un paese sicuro, con un’efficiente organizzazione e sistemi di controllo sociale tra i più avanzati; ricco, ideale per accogliere in sicurezza capitali e investimenti stranieri, come confermano le riprese aeree delle grandi città sudafricane che i telegiornali dell’epoca diffondevano, con grattacieli sormontati da insegne di banche e aziende internazionali, anche italiane. Immagini veritiere ma parziali, che non raccontavano il Sudafrica vero, ma solo una minima parte di esso, la parte ricca e privilegiata delle comunità di origine inglese e olandese che da secoli detenevano l’intero potere economico e politico del paese. Raccontavano un Sudafrica bianco, lasciando sullo sfondo la presenza e la voce della stragrande maggioranza dei suoi abitanti neri e meticci, la cui condizione era andata progressivamente peggiorando nel corso di almeno due secoli fino a sfociare in una delle più vergognose forme di sopraffazione che la Storia ricordi, l’apartheid, durata quasi cinquant’anni e conclusasi solo nel 1990 con la fine della prigionia di Nelson Mandela. Eppure non erano mancate in quegli anni forme diverse di protesta da parte degli africani neri, le cui condizioni di vita erano prossime alla schiavitù. Né erano mancate forme di rivolta organizzata, sempre represse con la violenza. E processi sommari, leggi durissime contro ogni forma di ribellione. Il tutto sullo sfondo di una condizione che al mondo esterno si cercava di non far conoscere. Ma come era potuto accadere che così poca informazione vera sulle tremende condizioni di vita degli africani fosse arrivata sino a noi e che una diffusa omertà avesse consentito per decenni che la vita di milioni di africani passasse inosservata agli occhi del mondo, a fronte dello splendore delle esistenze dei sei milioni di bianchi che governavano da padroni incontrastati una terra non loro? Una risposta ci viene dalla letteratura. Nel romanzo Un’arida stagione bianca di André Brink (1979), il protagonista, bianco, dopo i disordini del ghetto di Soweto vede sparire Gordon, il bidello, nero, della scuola in cui insegna, preso dalla polizia e poi morto «in circostanze misteriose», alle quali l’uomo non crede, insistendo per andare almeno a vederne il cadavere. Per quanto intelligente e consapevole e pur essendo nato a cresciuto in Sudafrica, proprio come la maggior parte dei suoi connazionali bianchi, l’uomo non aveva mai visto una baraccopoli nera e l’esperienza che fa da adulto, di una realtà così vicina a lui, ma sempre ignorata, viene raccontata come una discesa agli inferi:

«Una sensazione di assoluta stranezza, quando raggiunsero le prime file di case di mattoni, tutte uguali. Non solo un’altra città, ma un altro paese, un’altra dimensione, un mondo completamente diverso. Bambini che giocavano nelle strade sporche. Automobili e carcasse di automobili nei cortili squallidi… Ampi spiazzi senza un filo d’erba, con grandi discariche piene di rifiuti fumanti e bambini che giocavano a pallone. Dappertutto, orrendi scheletri carbonizzati di automobili o edifici […] Drappelli di poliziotti pattugliavano in assetto di guerra supermercati birrerie e scuole. Si inoltrò per uno scalcinato tratto di strada che scendeva lungo un’arida collina, attraversando un canale di scolo ingombro di lattine arrugginite, cartoni, bottiglie, stracci e ogni genere di immondizie, e si fermò accanto a un edificio lungo e basso, imbiancato a calce, una specie di capannone con la scritta: DA QUI ALL’ETERNITÁ€ – POMPE FUNEBRI».

Una narrazione che racconta, con precisione di dettagli, la condizione di vita dei neri lungo un percorso cominciato cinque secoli prima.

Intrecci di storia

I primi europei a raggiungere le coste sudafricane sono i portoghesi nel 1488, quando Bartolomeo Diaz doppia quello che verrà da lui stesso ribattezzato Capo di Buona Speranza. Ma l’interesse dei portoghesi è altrove, verso il Mozambico e l’isola di Sant’Elena, ritenuti scali commerciali più redditizi. Nel 1652 la Compagnia Olandese delle Indie Orientali approda al Capo di Buona Speranza con l’intenzione di farne un insediamento marittimo per rifornire di acqua e alimenti freschi le navi in transito verso oriente. Trasformatisi presto in proprietari terrieri, i Boeri soffocano nel sangue ogni tentativo di rivolta delle popolazioni autoctone alle quali progressivamente sottraggono i territori costieri. Nel 1806 gli inglesi conquistano la Colonia del Capo che terranno stabilmente sotto controllo con continue lotte con gli olandesi e contro le popolazioni locali, respinte verso la parte interna del paese; annettendo nuovi territori, quali il Natal e il Lesotho, in una lotta sempre più feroce quando nel 1867 si scoprirà che quel territorio è anche ricco di miniere di oro e diamanti. Nel 1910 tutti i territori conquistati da inglesi e olandesi si uniscono formando l’Unione del Sudafrica, governata da bianchi. Nel 1912 nasce il South African Native National Congress che alcuni decenni più tardi diventerà l’African National Congress, con Nelson Mandela, tra i principali leader storici. Nel 1914 il Sudafrica partecipa alla Prima Guerra Mondiale come membro del Commonwealth britannico, da cui si staccherà nel 1961 trasformandosi in Repubblica. A partire dal 1948 il governo dei bianchi, con una spartizione di ruoli tra sudafricani di origine inglese e olandese, inasprirà con progressiva ferocia la vita dei nativi africani attraverso una vera e propria «architettura della violenza» – l’apartheid, che in afrikaans significa «separazione» e che il suo ideatore, Hendrik Verwoerd definiva «politica di buon vicinato». Nel 1964 Nelson Mandela e gran parte del gruppo dirigente dell’ANC vengono condannati all’ergastolo e rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Robben Island – l’isola-prigione a 75 miglia marine al largo di Cape Town, dove Mandela rimarrà per ventisette anni. Il resto è storia recente.

Dalla violenza al perdono

Quando, l’11 febbraio del 1990, Nelson Mandela venne rimesso in libertà, il mondo tutto si domandò con preoccupazione seppure frammista a gioia, quali risvolti avrebbe preso da quel momento in poi la storia del Sudafrica; e se quell’evento, che tutti aspettavano da tempo, non avrebbe portato con sé anche una scia di sangue e violenze lunga almeno quanto quella che per decenni l’aveva preceduta. Perché era chiaro a tutti quanto non fosse affatto semplice e scontata la gestione di un passaggio storico epocale come quello della fine dell’apartheid. E invece il miracolo si compie e il nuovo parlamento guidato da Mandela, prima, e da Tabo Mbeki, poi, prende il via con uno straordinario percorso di ricomposizione della memoria storica attraverso l’operato della Commissione per la verità e la riconciliazione che nel corso di due anni e mezzo e sotto la guida morale dell’arcivescovo Desmond Tutu mette l’uno di fronte all’altro, volontariamente, vittime e carnefici, in un vero e proprio «bagno di verità» come non se n’era mai visto di uguale nella storia e forse difficilmente se ne vedrà. Di questa straordinaria operazione rimane traccia nei documenti della Commissione, in molto materiale video originale, ma anche in un testo, intenso e bellissimo, Terra del mio sangue, della poetessa e giornalista afrikaner Antjie Krog; stesso testo dal quale è stato liberamente tratto il film In My Country. Uno scritto importante, perché dimostra come la nuova storia del Sudafrica avesse bisogno non solo di essere tradotta in parole, ma anche fermata tra le pagine di testi, che negli anni dell’apartheid erano stati sistematicamente messi al bando e i loro autori condannati al carcere o all’esilio. Molti di quegli stessi intellettuali entreranno nel primo parlamento del Sudafrica democratico – i cui lavori si svolgono fin dall’inizio nelle dodici lingue scritte del paese, oltre alla lingua dei segni. A loro – tra i quali spiccano i due premi Nobel per la letteratura Nadine Gordimer e J.M. Coetzee – si deve il grande merito di avere tenuto accesa sul Sudafrica l’attenzione del mondo attraverso un’intensa produzione letteraria e saggistica ricca di centinaia di titoli – romanzi, saggi, poesie, opere teatrali – in lingua inglese, molto presenti anche in traduzione italiana.

Maria Antonietta Saracino
professore associato di letteratura inglese,
università di Roma La Sapienza