Gli intellettuali: controllori dei politici o clienti privilegiati?
Un antico dilemma
Sin dai tempi del buon Platone non è stato possibile riflettere sulla politica senza interrogarsi sui rapporti con gli intellettuali. Si tratta di due mondi originariamente estranei per vocazione: i politici sono protesi all’azione, gli intellettuali alla contemplazione. I primi rischiano di affezionarsi al potere rinunziando a un progetto complessivo di giustizia sociale, i secondi di cincischiare con i propri sogni senza spostare di un centimetro le condizioni effettive della società. La soluzione ventilata da Platone è tanto semplice da enunciare quanto ardua da attuare: che i politici diventino intellettuali o gli intellettuali imparino a fare politica. Ogni tanto il miracolo avviene (Pericle, Marco Aurelio, Adriano, Lorenzo de’ Medici, La Pira, Havel…), ma la statistica sembra attestare che si tratta di eccezioni a conferma della regola: l’uomo di governo non ha la voglia, e quando ha la voglia gli manca il tempo, di meditare sulle scelte di lungo periodo; l’uomo di pensiero non ha la voglia, e quando ha la voglia non ha la capacità, di occuparsi dell’amministrazione della cosa pubblica.
I guardiani critici del potere sono un’eccezione
Il meno peggio che possa capitare è allora una qualche forma di cooperazione fra «re» e «filosofi»: ma anche questa via è irta di ostacoli e trabocchetti. Pensare significa, infatti, criticare: non nel senso banale di fare le pulci a ogni costo, bensì nel senso etimologico di discernere il bene e il male, di chiamare il positivo e il negativo con il vero nome. L’intellettuale di professione dovrebbe frequentare i palazzi del potere come coscienza critica: dunque consigliere propositivo, ma anche controllore severo. La storia ci insegna quanto poco i governanti amino questo genere di supporto: Boezio e Seneca sono solo alcuni dei molti filosofi che hanno pagato col carcere e la morte la frequentazione delle corti. In tempi più recenti, sono stati i philosophes a verificare l’impossibilità di un «assolutismo illuminato»: Voltaire sbatte la porta della reggia prussiana dopo aver tentato invano di rendere più vivibile un Paese che gli apparve una grande caserma in assetto perenne di guerra.
Se la storia registra i nomi degli intellettuali che hanno, più o meno drammaticamente, rotto il rapporto di collaborazione con i governanti, non fa altrettanto con i nomi – assai più numerosi – degli intellettuali che non hanno consumato nessuna rottura clamorosa perché hanno preferito vendere il proprio silenzio. Le cronache italiane di questi ultimi decenni attestano non un fenomeno nuovo, ma un fenomeno antico ampliatosi in maniera parossistica: pletore di professori, di artisti, di ricercatori, di giornalisti e di esperti più o meno qualificati che rinunziano allo scomodo ruolo di guardiani del potere, a nome e per conto del popolo, e abbracciano la più remunerativa carriera di clientes privilegiati. Reincarnazione dei più sfrontati sofisti, costoro usano le armi della dialettica non per cercare – nella misura del possibile – la verità quanto per difendere gli interessi dei più potenti e dei più ricchi, soprattutto di quanti sono potenti per ricchezza e ricchi per abuso di potere.
È possibile una via d’uscita dall’impasse? È ipotizzabile una sinergia fra intellettuali e politici che non approdi, fatalmente, al martirio di alcuni o alla complicità di molti? Sino a quando, nell’immaginario collettivo, si accetterà come ovvia e inevitabile una partizione della società per corporazioni, non vedrei soluzioni.àLa corporazione – o, se si preferisce, il termine meno esatto di «casta» che di per sé comporterebbe l’appartenenza per diritto di nascita ed escluderebbe l’uscita e l’entrata di membri particolarmente intraprendenti e sfacciati – degli intellettuali da una parte; la corporazione dei politici di carriera dall’altra: attualmente si tratta di segmenti della medesima fascia «alta» della società, accomunati da una tavola di valori e di interessi comuni (il consenso sociale, il successo, l’ampia disponibilità di denaro, i privilegi relazionali rispetto alla gente comune…).
Che ogni cittadino divenga intellettuale e politico
Solo un contesto radicalmente rinnovato potrebbe consentire nuovi rapporti: mi riferisco a una società in cui politica e cultura non siano più monopolio di sedicenti specialisti bensì dimensioni, più o meno accentuate, di ciascuna esistenza umana. Mi riferisco, in altre parole, a una società (futura, ma possibile) in cui ogni cittadino e ogni cittadina vogliano, sappiano e possano coltivare la propria valenza politica e la propria valenza intellettuale, senza delegare né l’una né l’altra a «professionisti» – rispettivamente – della politica e della cultura. Antonio Gramsci scriveva che ogni uomo è un intellettuale, anche se nonàogni uomo si dedica principalmente al lavoro intellettuale: la società che immagino (come intellettuale) e per la quale lavoro (come soggetto politico) è una società in cui l’affermazione gramsciana non solo diventi vera, ma possa essere anche parafrasata (ogni uomo è un politico, anche se non ogni uomo si dedica principalmente al governo della città). L’alleanza fra pensiero e azione potrà realizzarsi a livello istituzionale solo se prima si sarà avviata nell’ambito delle esistenze personali. Platone ha avuto una grande intuizione quando ha stabilito la rinunzia al diritto di proprietà privata dei beni materiali come condizione sine qua non per svolgere correttamente il ruolo di intellettuale e il ruolo di governante; ma non ha capito che la commistione fra filosofi e re provocherà pasticci, se non addirittura tragedie, sino a quando riguarderà una sola «classe» sociale, al di sopra delle teste e delle vite delle classi «inferiori» (militari e operai). Solo quando i cittadini tutti attueranno almeno in minima parte le proprie potenzialità intellettuali e politiche saranno in grado di accompagnare criticamente ogni tentativo di sinergia fra cittadini prevalentemente intellettuali e cittadini prevalentemente politici.