Syria
Intervista a padre Paolo dall’Oglio
Due anni fa la Syria sembrava un paese destinato a lasciarsi alle spalle la nomea di «Stato canaglia» con cui sbrigativamente il governo statunitense l’aveva etichettata. Anzi, aperture significative erano venute proprio da esponenti di spicco dell’amministrazione americana. In particolare un viaggio a Damasco dell’allora presidente della Camera, Nancy Pelosi, nell’aprile 2007 aveva dato l’impressione che fosse iniziata la via dello sdoganamento del governo syriano.
Il dittatore Bashar al Asad sembrava voler progressivamente allentare la morsa con cui da un quarantennio la sua famiglia teneva in pugno il popolo syriano. La crescente apertura al turismo, sia religioso che culturale, aveva permesso ai sempre più numerosi visitatori di tornare con l’impressione di una Syria ben diversa da quella descritta dagli americani: gente ospitale, un benessere sorprendente per la realtà mediorientale, sicurezza e una consolidata convivenza tra culture e religioni. Non era infrequente incontrare per le vie delle principali città ragazze in minigonna e donne velate, senza che ciò turbasse nessuno.
Poi, nemmeno due anni fa, ecco le «primavere arabe» con la caduta, come in un domino, di regimi che da mezzo secolo reggevano le sorti delle nazioni arabe che si affacciano sul Mediterraneo.
La Syria – se Bashar al Asad avesse gestito con maggior tempismo e realismo la situazione – probabilmente avrebbe potuto vivere una transizione indolore. A mancare è stata la lungimiranza, per cui a emergere sono state da una parte le frange del clan Asad, sostenute da chi riconosceva nel dittatore un elemento di stabilità, arroccate a difesa di privilegi pluridecennali e dall’altra chi ha visto nelle primavere arabe la possibilità di dare una spallata al regime. Il risultato è la guerra civile che abbiamo sotto gli occhi e che ci viene raccontata, magari non sempre imparzialmente, da giornali e TV.
Al momento non s’intravede via d’uscita. A fornirci qualche lume in più è padre Paolo Dall’Oglio, priore del monastero di Deir Mar Musa, un luogo dello spirito, arroccato a 1400 metri di altezza su uno sperone roccioso in pieno deserto syriano. Da oltre trent’anni questo luogo rappresenta una simbolica tenda di Abramo, accogliente per tutte le fedi e tutte le persone. Un ruolo riconosciuto a livello internazionale tanto che il monastero, e il suo priore, erano il simbolo di questo dialogo e di questa convivenza possibile. Purtroppo è necessario usare il passato perché padre Paolo Dall’Oglio qualche mese fa è stato espulso da una terra che considera come la sua patria. Vittima incolpevole del prevalere di chi non vuole il dialogo, nello scontro tra le correnti più conservatrici e chi invece vede nel confronto democratico l’unica via d’uscita dalla guerra civile.
La Syria è vittima incolpevole di una guerra tra grandi potenze o ha la sua parte di colpa?
La Syria non è un soggetto coerente, neanche in quanto attore collettivo… non le si possono imputare colpe. In alcuni momenti si ha l’impressione di assistere a un processo automatico, irriflesso, provocato dalla meccanica conflittuale degli istinti culturali e le predisposizioni di gruppo. È solo quando si inizia a guardare alla Syria a partire dalla decisione di implicarsi a partecipare per cambiare e riformare una situazione insostenibile, allora gli orizzonti si schiariscono un poco e il proprio dovere si mostra proponendosi come teatro della nostra dignità umana e cittadina.
In Syria confliggono, due grandi tensioni: da un lato quella tra gli interessi geo-strategici atlantici e quelli russi (post o neo sovietici) e dall’altra parte la guerra civile tra sciiti (capitanati dall’Iran e coinvolgente l’Iraq di al-Maliki, ilàLibano di Nasrallah e appunto la Syria del regime degli Asad legato ai clan alawiti) e sunniti (la cordata dei turchi, i sauditi, i libanesi di Hariri, il Qatar, i Fratelli musulmani… e i gruppi salafiti «internazionalisti»). Naturalmente Israele, e la larga solidarietà che lo sostiene, lo giustifica e gli obbedisce internazionalmente, non sta certo alla finestra inattivo e paralizzato dalla preoccupazione riguardo ai risultati della primavera araba! Numerosi indizi indicano che il governo di Gerusalemme, poco prolisso sulla crisi syriana, agisca in verità per favorire un indebolimento profondo e possibilmente irreversibile della Syria, profittando delle divisioni in conflitto e specialmente tra sciiti e sunniti (i quali fanno spesso a gara purtroppo nel dichiarare odio inestinguibile allo Stato d’Israele e anche al giudaesimo, cadendo entrambi spesso nel peggiore negazionismo antisemita e consentendo quindi d’essere considerati dei neonazisti da combattere eventualmente anche con l’atomica!): Israele sembra spinga sulla dislocazione su base etnica e confessionale della Syria e della regione… mentre sarebbe proprio l’attitudine federalista quella in grado di mostrare la via della pacificazione medio-orientale.
La colpa del regime è evidente: quarant’anni di repressione assoluta dell’opinione e dell’espressione attraverso il terrore ambientale, la tortura sistematica degli oppositori e, specie negli ultimi quindici anni «liberali», la sottomissione della società a un sistema mafioso rampante e corruttore.
La colpa del presidente Bashar è quella di non aver avuto il coraggio di uccidere simbolicamente il padre, prendendo posizione per la democrazia e i diritti in modo coerente e non così buffonesco come quello tentato tardivamente, capace unicamente di federare solo coloro che comunque rimangono organici al regime «a morte» per ragioni culturali (all’interno del paese: ampi settori delle minoranze religiose e alcuni spezzoni ideologici radicalmente anti-islamici; e all’esterno: syriani minoritari all’estero, identitari tradizionalisti di destra e tardo sovietici antimperialisti di estrema sinistra, ormai spesso esplicitamente alleati) o per complicità mafiose transnazionali. La colpa del dottor Bashar è di essere ormai la macabra caricatura della rispettabilità e della correttezza internazionalmente apprezzate e premiate… è certo tragico oggi vedere a che mostro sanguinario si è patologicamente ridotto.
Non mancano le colpe delle opposizioni politiche e della resistenza militare. La lista sarebbe lunga. Sottolineerei l’incapacità di ripensare costituzionalmente il pluralismo syriano in vista della caduta della struttura autoritaria che lo garantiva, correndo così il rischio di non aver piani concreti per evitare la divisione post-rivoluzionaria del paese e/o i massacri vendicativi su base etnica e confessionale. Sul piano militare non si è saputo operare in modo da ottenere un’affidabilità internazionale, senza la quale non si riesce a concludere la guerra di liberazione e si finisce col favorire ogni genere di estremismo armato e di anarchia criminale. E queste portano tanti a rimpiangere inutilmente un regime irreformabile e definitivamente a perdere.
Le primavere arabe hanno portato, quasi ovunque, al potere partiti e movimenti che, dopo le dittature, vorrebbero imporre un governo confessionale. Recenti notizie riportate sulla stampa vedono i partiti integralisti islamici presenti in parlamento premere per una repubblica islamica e una legislazione basata sulla sharia addirittura in Egitto. Nella composita situazioneàsyriana c’è il rischio di analoghe pretese nel governo post guerra civile?
I soggetti politici caratterizzati islamicamente non hanno smesso di emergere e crescere lungo tutta la seconda metà del ventesimo secolo proponendosi come alternativi tanto al modello comunista come a quello liberale. All’inizio del millennio, forse proprio per effetto della «guerra mondiale al terrorismo» del fondamentalismo occidentalista, notiamo una deriva di sviluppo e diffusione del radicalismo musulmano armato, che costituisce una problematica grave e difficile nei processi di crescita civile e democratica dei paesi profondamente caratterizzati islamicamente. D’altro canto assistiamo a un’evoluzione dell’Islam politico nel senso di una convinzione civile più netta e una disponibilità democratica più sincera. Certo che se il mondo umilia i democratici, li spinge allora alla violenza e alla radicalizzazione islamista armata e terrorista. Con ciò credo che occorre cogliere la differenza tra il terrorismo clandestino a bordo della resurrezione syiriana e i gruppi di radicali musulmani salafiti o Fratelli musulmani (diversi e da distinguere). Da questo punto di vista, mi rifiuto di mettere nella cesta terrorista tutti i combattenti che perseguono un progetto islamista. I rischi ci sono e aumentano in modo esponenziale a causa del cinismo indifferente e irresponsabile della comunità internazionale che nega così nella pratica i principi affermati all’ONU.
La Syria futura sarà certo più islamica e meno «tollerante», ma se riuscirà a essere meno torturante e più garantista e a rispettare il gioco democratico con trasparenza, allora va bene perché ci si muove nell’ambito dell’autodeterminazione popolare. L’Islam è una realtà in profonda evoluzione anche per effetto positivo e negativo della relazione con le altre grandi componenti di civiltà. I fondamentalismi si confermano vicendevolmente mentre si fanno la guerra… Ma anche le colombe dell’inclusività, del rispetto, della tolleranza sono trasversalmente e universalmente interattive e complici!
Sulla base della sua esperienza quale appare, al momento, l’ipotesi più praticabile per porre fine a una situazione che sta causando migliaia di morti?
Molti ci accusano di massimalismo e di nessuna disponibilità negoziale. È ingiusto. Sono i negoziatori dell’ONU che agiscono come se la lotta (e a che prezzo!) per la democrazia si potesse fermare a metà, rimandando indietro il nascituro popolo della libertà alla placenta della dittatura una volta rotte le acque. I syriani l’hanno detto chiaro: è meglio morire che tornare alla dittatura. Certo qui si sta perdendo la proporzionalità tra effetto desiderato e tragedia in corso. Ma la fedeltà al sangue versato richiede di saper andare fino in fondo. Sarà poi dovere del tribunale internazionale dei crimini di guerra quello di giudicare chi ha ricattato i syriani dichiarando «O Asad o bruciamo il paese!», e ha poi realizzato la minaccia col mondo alla finestra. Questo non significa che non ci sia nulla da negoziare e da perseguire in modo non violento.
Nico Veladiano
giornalista e scrittore, vive in provincia di Vicenza
padre Paolo Dall’Oglio
gesuita, priore del monastero di Deir Mar Musa, Syria