La democrazia a un bivio

di Boschetto Benito

Il ruolo della politica, dell’economia, dei cittadini

Ha ragione Don Gallo quando sostiene che «il vero scontro attuale non è tra Cristianesimo e Islam, mondo occidentale e Terzo Mondo… Lo scontro autentico è tra economia e democrazia, tra economia ed essere umano».

Così viene spontanea una domanda che non può essere elusa. È compatibile con la democrazia il processo di crescita e di accumulazione che la dinamica e la qualità dello sviluppo economico esprimono nella realtà contemporanea?

Certo che la domanda è retorica! Perché è certo che non è compatibile.

Non è infatti solo un problema di diseguale distribuzione della ricchezza che ha raggiunto, a livello globale e nei singoli paesi, dimensioni davvero scandalose e non più sopportabili e che, di per sé, rappresenta già un problema di giustizia sociale, che non è un attributo secondario della democrazia. Ma c’è un problema di potere, inteso come il luogo dove si elaborano e si prendono le decisioni, che poi ricadono sulle condizioni di vita di una comunità sia locale che globale.

La politica è esercizio del potere per il bene comune. Ed è per questo che, in democrazia, la sovranità di questo potere risiede nel popolo e la politica lo deve esercitare, effettivamente, non solo nel suo nome, ma soprattutto nel suo bene a tutela degli interessi generali. Per questo deve essere chiaro negli obiettivi e trasparente nel suo esercizio. Per questo è sottoposto al voto.

Ma se il potere politico, per una complessità di processi, di dinamiche, di rapporti di forza con le differenti realtà che interagiscono nella società, si trasferisce, di fatto, dalla sfera politica dei fini generali a quella degli interessi particolari, si determina una eterogenesi dei fini nell’esercizio di quel potere. Una deriva verso interessi oscuri e spesso inconfessabili, una degenerazione della democrazia. Che diventa, così, una realtà formale, solo di facciata.

Che si sia a un bivio nel quale occorre rimettere in ordine le cose è indubbio.

I due modi di imporsi dell’economia

La globalizzazione ha finito per indebolire i poteri politici nazionali, senza creare un potere politico sovranazionale. Ciò mentre l’economia è diventata globale, appunto, assumendo una forza («i mercati») in grado di imporsi, sempre più e in modo assolutamente anonimo, ai poteri politici scelti democraticamente.

Ma imporsi come? Innumerevoli sono i modi. Proviamo a indicarne due fra i più rilevanti. Il primo, l’abnorme peso assunto dall’economia finanziaria in quello sciagurato processo di crescita smisurata di ricchezza fasulla (fasulla per la sua natura, non per gli avidi speculatori), fa sì che, chi muove le sue leve, è in grado di condizionare, con la sua influenza sui mercati appunto, gli Stati, i governi e tutti gli altri soggetti che interagiscono nella scena politica. Complice, tra l’altro, la facilità, oggi, di trasferimento dei grandi capitali. Non a caso la «liquidità internazionale» è chiamata il nuovo tiranno del mondo globalizzato. Non solo, ma «la natura corruttrice dell’avidità di denaro» (Lutero), di quel denaro, oggi disponibile in dimensioni enormi, è in grado di comprare e rendere subalterni ai loro interessi particolari gli attori politici meno virtuosi.

Il secondo: l’ideologia devastante di liberismo selvaggio della deregulation reaganiana e thatcheriana, che ha imperato negli ultimi 40 anni, producendo quel pensiero unico a cui anche le più distanti correnti di pensiero hanno finito per acconciarsi. Un’ideologia fondata sull’individualismo sfrenato, senza regole, come se il successo dei più furbi, e con qualsiasi mezzo, fosse, per sommatoria, interesse di tutti. Ma, per costoro, si sa, «la società non esiste», come ebbe a dire la «Lady di ferro».

Ho assistito personalmente, nel 1996, a una rappresentazione horror di questa realtà, in occasione della annuale convention dei mercati derivati a Boca Raton in Florida. Eravamo nel pieno dei fasti della new economy. Una sessione di lavoro era dedicata agli sviluppi della deregulation. In un mercato già pesantemente deregolamentato, Merryl Linch, a nome delle major della finanza globale, aprì un duro scontro con la SEC, l’organismo di controllo dei mercati, chiedendo che anche gli ultimi baluardi del controllo pubblico venissero eliminati. La tesi era che, siccome le dimensioni dei loro business erano diventate talmente rilevanti, i loro meccanismi interni di controllo del rischio erano «più che sufficienti» a garantire i risparmiatori. Questo scontro con la SEC, che difendeva il suo ruolo di garanzia e tutela dei risparmiatori, avveniva alla presenza di autorevoli membri delàCongresso americano, rimasti del tutto silenti e chiaramente subalterni alle ragioni del potere finanziario. Quello che è accaduto poi, proprio a causa dell’abbattimento di quei presidi di controllo pubblico del business finanziario, è, noto. La stessa Merryl Linch, oltre alla Leman Brothers, all’American Bank e tante altre banche sono fallite. Lo Stato è dovuto intervenire, con danno grave per i contribuenti e soprattutto per i risparmiatori: quella «società che non esiste», era lì chiamata a pagare i danni della loro avidità! Insomma la politica debole, latitante e spesso intimorita o corrotta, ha lasciato campo libero agli interessi più spregiudicati dell’economia finanziaria: quelli che, mossi esclusivamente da un’avidità predatoria (*), hanno sopraffatto e addirittura spazzato via quei valori morali, sociali ed economici che costituivano il tessuto connettivo di una società volta a perseguire modelli sani e più giusti di sviluppo economico e sociale. Ciò che costituisce l’essenza del ruolo della politica e della democrazia. Ma c’è un fatto in più che si è verificato: il passaggio a quello che Luttwak chiama «turbocapitalismo». Quel fenomeno che, in sostanza, ha segnato la rottura del patto fra capitalismo e democrazia, che ha assicurato il successo dei primi decenni del dopoguerra: un compromesso socialdemocratico in Europa e liberaldemocratico negli USA, con cui si perseguivano, insieme, gli obiettivi della prosperità economica e dell’equità sociale.

Le conseguenze devastanti su ambiente, debito e lavoro

Quali le conseguenze devastanti di queste dinamiche dominanti? Vediamone brevemente almeno tre, molto significative anche rispetto alla drammatica attualità che stiamo vivendo.

L’ambiente. Questi interessi voraci di natura apertamente, o sostanzialmente, criminale che, come dice l’economista Sachs, «guardano alla natura da un lato come miniera e, dall’altro, come una discarica», sono talmente spregiudicati, che non si fermano davanti a nulla, nel perseguire il massimo profitto, con il colpevole silenzio o la evidente collusione del potere politico. La democrazia vive, o sopravvive, se sarà capace di prevalere su queste violenze, a tutela delle risorse del nostro habitat, della nostra vita, e soprattutto dei diritti delle generazioni future («l’ambiente non è nostro, ma ci è dato in prestito dai nostri figli»: Africa).

Il debito. Lo sviluppo così smisurato dell’economia finanziaria ha avuto bisogno di una continua crescente creazione di moneta, o di strumenti paramonetari. Non potevano bastare, anche se erano anch’essi totalmente in gioco, i risparmi privati, laddove vi erano. È stato necessario sviluppare un crescente e smisurato indebitamento degli Stati e delle famiglie. I mercati, come un leviatano, ne avevano bisogno in misura sempre crescente. Maàdi debito non si vive e, oltre una certa misura di equilibrio, di debito non solo non ci si sviluppa, ma addirittura si muore. La conseguenza è la realtà che abbiamo ogni giorno di fronte a noi. Oggi. L’insostenibilità e soprattutto l’enorme tragica ingiustizia di mettere in carico ai nostri figli e alle future generazioni la nostra dissennatezza. E la politica? È indubbio che è la prima responsabile di questa deriva che, in omaggio al dio denaro, ha svolto un ruolo funzionale agli interessi più deplorevoli della grande finanza e della corruzione, inquinando la vita democratica.

Il lavoro. È triste la gaffe di quella sciocchina della nostra ministra: «Il lavoro non è un diritto». No, signora Fornero, il lavoro è il primo dei diritti umani e di cittadinanza. E non è un caso che i nostri lungimiranti costituenti (altra stoffa di politici!) lo avessero indicato all’art. 1 della Costituzione. Lo è per la semplice ragione che, se non si ha quel minimo di libertà economica che solo il lavoro può garantire, perdono di significato anche tutti gli altri diritti a cominciare da quelli politici. E invece abbiamo avuto, in questa deriva culturale, sociale e politica anche una doppia delegittimazione del lavoro. La prima, la propaganda sui facili guadagni della finanza, che non sono legati all’economia reale, alimentando così vizi e illusioni. Ma ha marginalizzato, anche moralmente, il lavoro, generando così una sorta di corruzione mentale diffusa. La seconda è la crescente separazione fra il lavoro e la persona di cui è inscindibile proiezione e garanzia di dignità, diventando, invece, il lavoro, sempre più una merce da pagare senza tutele e diritti. E proprio su questo punto, vale ricordarlo, l’umanesimo kantiano e quello cristiano hanno bollato in capitalismo, che considera il lavoro un mero mezzo di produzione, come privo di fondamento etico.

Concludo con una certezza, una speranza e un monito.

La fede nella politica consapevole

La certezza è la fede nella politica consapevole sia delle sue straordinarie potenzialità positive, quando è davvero al servizio della giustizia e del bene comune, sia delle sue straordinarie potenzialità negative, soprattutto quando fa commercio nelle mille possibili modalità anomale, con il denaro. L’esempio ce lo danno Lula, da una parte, e Berlusconi, dall’altra. In otto anni Lula, in un paese povero, con la sua politica, ha tolto dalla povertà oltre 30 milioni di poveri. In oltre 10 anni, in un Paese ricco, Berlusconi, viceversa, ne ha prodotto oltre 7 milioni in più.

La speranza è che, come altre volte nella storia è accaduto (da Pirenne alla nascita dell’Europa moderna) la minaccia di aggressori esterni, e la globalizzazione ce ne offre a iosa, produca un salto di unità, soprattutto politica, nell’assetto del vecchioàcontinente, capace di fronteggiare le minacce dei processi degenerativi della democrazia europea.

Il monito lo cito dal delizioso libro di Giorgio Ruffolo, Lo specchio del diavolo. «Nel giorno del giudizio, di fronte al Tribunale Supremo della Storia, qualcuno dovrà spiegare perché, nel nostro tempo, le risorse destinate a inondare incessantemente il mercato di nuove generazioni di gadget, siano state negate alla cura dell’ambiente, alla sicurezza delle infrastrutture, alla protezione del territorio, alla promozione della cultura» per passare, aggiungo io, nelle mani di spregiudicati speculatori che «creando denaro col denaro» hanno perseguito il vantaggio di pochi, invece della ricchezza reale a vantaggio di tutti. Ciò che è evidentemente incompatibile con un’idea sana di democrazia e,àtantomeno, di democrazia sociale, come è quella disegnata nella nostra Costituzione.

(*) Ivan Broesky, grande guru della finanza globale la cui storia vera è raccontata nel film Wall Street, chiamato, a metà degli anni novanta, ad aprire l’anno accademico alla Columbia University di New York, enunciò il manifesto dell’avidità: «L’avidità è buona, l’avidità è bella, l’avidità è virtuosa… l’avidità salverà gli Stati Uniti»!

Benito Boschetto
già segretario generale della
Camera di Commercio di Milano
e già direttore generale della Borsa Valori