Il futuro anteriore dell’educazione
Pensieri a margine del saggio di Goffredo Fofi
Tutto intorno a te
Mi fermo a salutare un ex-studente; lavora da suo padre, presso un punto vendita di una grande azienda telefonica, in un centro commerciale. Devo attendere e mi guardo attorno. Sta servendo un ragazzo, dovrebbe avere la mia età… Faccio mentalmente marcia indietro: se ha la mia età, non è più un ragazzo. Eppure, atteggiamento, abbigliamento e, come si dice, accessori sono i medesimi dei 17enni che ho in classe: poca barba incolta, un piercing al cadente sopracciglio destro, al polso due braccialetti vistosi, esteticamente poco abbinati. E sull’avambraccio sinistro un tatuaggio, un arabesco, forse una parola, o solo un disegno. Se ci trovassimo in acque internazionali nella seconda metà del ‘500, starebbe benissimo sul ponte di comando a fianco di Francis Drake. L’insieme dei simboli che il cliente indossa sono un racconto, o lo vorrebbero essere: segnali sparsi lungo il corpo che pretendono di dire quante e quali esperienze egli abbia fatto. Sul bancone, tra gli avvisi promozionali, spicca una foto: all’interno di un locale, un tipo fa uno scherzo a una ragazza. Nulla di immorale o illegale: una bravata da dire in giro. E infatti lo slogan a commento dell’immagine recita: «Il bello è raccontarlo subito agli amici». Il pacchetto-offerta serve a questo: sfruttare la tecnologia del cellulare per far sapere a tutti nell’immediato che cosa sto facendo e quanto simpatica sia la mia vita.
Un uomo, probabilmente un pensionato, mi chiede se sia vera l’offerta per cui telefoni con 15 euro al mese. L’ha letta sul giornale locale, ma vuole capirci di più. Mi spiega che spende dieci volte tanto, perché la moglie, la madre malata e la figlia («ga el mutuo»), gli fanno uno «squillino» e lui è costretto a richiamarle. E così i minuti scorrono e con loro il denaro. Certo, si sta ponendo il problema di spendere di meno; ma – penso – chi sa se si sta chiedendo che cosa mai avranno da dirgli per 150 euro mensili.
Sullo scivolo del futuro
Il bisogno di raccontare c’è sempre stato. Dirsi, narrarsi, solo accennare alla giornata passata: è elemento centrale del tempo individuale di ciascuno. A tavola, o sulle terrazze alla ricerca di un po’ di fresco, nelle sere d’estate, due sedie affiancate, una sigaretta. Talvolta il racconto diventaàletteratura: il linguaggio si fa preciso, personale e riconoscibile. Penso ad alcuni brani sui giovani e sulle loro bravate, o sui vecchi di paese, che ci hanno lasciato Meneghello o Comisso, giusto per stare in terra veneta.
Nel centro commerciale ho quindi assistito solamente a un radicale bisogno umano reinterpretato secondo le dinamiche imposte dalla tecnologia contemporanea? Dal tatuaggio, alla telefonata, alla pagina su Facebook la gente continuamente parla di sé, o meglio: chiede di essere considerata. C’è un «guardatemi» continuo… «Guaddami mama!»: la bimba intende salire sullo scivolo dalla parte inclinata, cercando di mettere alla prova il proprio limite e la pazienza dei genitori. Nell’intraprendere, cerca sé stessa, la propria definizione: un’impresa degna della sua età.
Ma se questa bimba, crescendo, non troverà di fronte e accanto a sé adulti fatti, ma bambini con il corpo, la sessualità e il portafoglio dei grandi? È questa la metamorfosi pedagogica alla quale il mercato ci sta conducendo: rimanere bambini, ma non nel loro essere nicianamente al di là del bene e del male, ingenui, indifferenti all’accumulo, vivi qui e ora… Ma nel loro puro essere fisiologico: un fascio di bisogni e di richiesta di soddisfacimento di bisogni.
Quando il cervello di un bambino è in grado di pensare al futuro? Farò il pompiere! O la ballerina, o l’astronauta. In attesa di consultare gli psicologi dell’età evolutiva, azzardo una tesi: non importa quando, ma il pensiero del futuro – del progetto, del desiderio – si affaccia negli stessi tempi dell’apparire del pensiero della morte. Che qualcosa finisca, che la vita come la conosciamo a un certo punto cessi di essere: l’esperienza di una persona che non c’è più è un modo di presentarsi del futuro. Non l’unico, certo; ma essenziale e in molti casi determinante.
Strategie di sopravvivenza
Incrocio di destini letterari, quasi fortuito. Marc Augé, in Futuro, scrive: «L’avvenire di ogni individuo è la morte, e tutte le astuzie di cui dà prova il ricorso al futuro anteriore (sarò stato il tale o il talaltro, questo o quello) non possono cambiare le cose». Risponde Claudio Magris: «la morte è una specialista di trapassato prossimo e di futuro anteriore». Trovo questa citazione in un bellissimo racconto lungo, Un altro mare, dedicato alla vita di Enrico Mreule, amico di Carlo Michelstaedter e suo sodale nel pensiero e nella radicalità dell’esistenza.
Goffredo Fofi pensa al filosofo goriziano e più ancora ad Aldo Capitini, pedagogista e teorico della non-violenza, che da Carlo mutuò la parola, quando interpella i «persuasi» nello scrivere il saggio denso e tremendo dal titolo Salvare gli innocenti. Una pedagogia per i tempi di crisi. Il persuaso è colui che costantemente, quotidianamente, è impegnato in un lento processo di liberazione, di sé stesso e dei suoi simili, attraverso le azioni, la prassi, prima e al di là delle teorie. Apre gli occhi sulla precarietà della libertà dell’uomo – e della sua dignità – ma non ne fa un sistema filosofico, né un’ideologia, bensì occasione di pratiche minime di emancipazione.
Ora, seguendo i ragionamenti di Enrico, raccontati da Magris, possiamo tentare di chiudere il cerchio: «La civiltà è la storia degli uomini incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere a séàstessi la vista e la coscienza del loro vuoto». Non è un caso che Michelstaedter viva (e muoia) agli albori della società del consumo di massa, anche se il suo nordest italiano di inizi ‘900 non è la locomotiva senza fiato che adesso abitiamo. Ma gli elementi sono gli stessi: l’illusione del senso dell’esistenza e le strategie del mondo per sopportare tale illusione, per ingannare la morte. Oggi l’inganno è standardizzato, è riprodotto su video, è smerciato: il mercato si presenta come vera soluzione, non perché meno falsa di altre (le ideologie politiche, le religioni), ma perché crea la verità nella sua programmata tensione a soddisfare ogni bisogno.
Parlare di educazione
Nel tempo della vendita in edicola delle guide per qualsiasi cosa, anche l’educazione non ha scampo: argomento tra gli argomenti, diventa un prudore di qualche istante per neo-mamme o neo-papà disorientati, per poi tornare a giacere tra gli scaffali delle discussioni accademiche. Inerte in ogni caso. E invece Fofi invita a pensare a questo: l’educazione deve tornare a essere un tema di riflessione e di pensiero collettivi. Fofi non si rivolge a tutti e non teme di lasciar fuori qualcuno: parla a coloro, a uomini e donne che, impegnati nelle istituzioni che dovrebbero occuparsi di educazione, non soffrono di sclerocardia, hanno mente e cuore accesi per non scordare il senso ultimo dell’educazione stessa, e cioè il bambino o il ragazzo che ho proprio qui di fronte a me. Essi esistono e, pur sapendosi minoranza, non si fermano. L’autore ha una certa allergia per le maggioranze, ma anche per le minoranze che il mercato trasforma in fenomeni mediatici, quelle che l’applauso porta in primo piano per qualche minuto, spesso corrompendole. Costringe il lettore ad aprire gli occhi sul fatto che, parlando di pedagogia, è necessario denunciare un duplice fallimento: quello del mito del benessere per tutti, che ha reso il mercato la voce più potente nell’indirizzare desideri, aspettative e immagini di futuro di ragazze e ragazzi e quello delle istituzioni cosiddette educative, che – non sono parole dell’autore ma un tentativo di riassumere – hanno scordato una verità mastodontica: l’istituzione non ascolta, non può mettersi in ascolto. E per l’educazione c’è bisogno invece essenzialmente di questo. Fofi non scrive il panegirico della relazione o dell’empatia: non serve. La semplice, quasi cinica, descrizione della situazione italiana attuale è la prova che l’essenziale è stato messo da parte, e che il vuoto è stato riempito dalle merci.
Se io sono il mio bisogno, qui e ora, non ho più alcun interesse a immaginare il mio futuro: che cosa desidero essere? Come vorrei vedermi tra alcune decine d’anni quando, guardandomi indietro, tirerò le somme? Recuperare la prospettiva del futuro anteriore – far per quanto possibile pace con la morte – è operazione nella quale dobbiamo essere accompagnati. Non so se gli insegnanti austro-ungarici di Carlo ed Enrico ci siano riusciti oppure abbiano già allora rinunciato all’utopia dell’educazione, la medesima che oggi ci è chiesto invece di rendere concreta.