La condizione giuridica dello straniero
I diritti degli stranieri
Secondo la nostra Costituzione, la condizione giuridica dello straniero è disciplinata dalla legge, in conformità a quanto previsto dal diritto internazionale (art. 10, comma 2).
Ciò significa che il nostro legislatore non è pienamente libero di definire quali siano i diritti degli stranieri, dovendosi attenere a quanto previsto, in primo luogo, dai trattati internazionali, in particolare da quelli in cui lo Stato si è impegnato a garantire determinate prerogative a tutti, ossia all’uomo in quanto tale.
Da questo punto di vista, una simile protezione è del tutto coerente e, anzi, sinergica, con quanto è stabilito dalla lettura simultanea di altre disposizioni fondamentali (gli artt. 2 e 3), che vincolano la Repubblica a garantire i diritti inviolabili dell’uomo e a consentire comunque, per tutti, un’effettiva realizzazione del principio del pieno sviluppo della persona, senza che siano possibili irragionevoli discriminazioni.
Si può dire, pertanto, che, in via generale, gli stranieri godono, in Italia, di tutti i diritti inviolabili e di tutte le libertà cosiddette «fondamentali». È un principio, questo, affermato anche dal legislatore, che riconosce allo straniero, comunque presente sul territorio o alla frontiera, «i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti» (art. 2 T.U. immigrazione, d.lgs. n. 286/1988).
In generale, però, premessa questa tendenziale e generale estensione, può constatarsi che la Corte costituzionale tiene un atteggiamento ragionevolmente differenziato, a seconda del diritto o della libertà che di volta in volta viene in considerazione.
Ad esempio, rispetto a «diritti» o a «libertà» che la Costituzione riconosce espressamente a «tutti», l’estensione è automatica (è il caso del diritto di difesa o della libertà di manifestazione del pensiero). Analogo risultato, poi, si ha anche per quelle libertà fondamentali «classiche» che non vengono testualmente riferite ai soli «cittadini» (v. la libertà personale, l’inviolabilità del domicilio, il diritto all’unità familiare o il diritto a contrarre matrimonio). Viceversa, laddove la Costituzione si riferisce ai «cittadini», la Corte distingue caso per caso (salva però l’estensione pacifica delle pretese connesse al principio di uguaglianza). In particolare, la Corte tende sempre a favorire l’estensione della tutela agli stranieri anche in questi casi, ma ammette talvolta la possibilità di restrizioni o di distinzioni circa il godimento effettivo della situazione soggettiva (così è, ad esempio, per la libertà di circolazione).
In ogni caso, la Corte considera sempre esteso agli stranieri, anche laddove non siano regolarmente soggiornanti, il godimento del nucleo irriducibile dei diritti inviolabili (sent. n. 252/2001). E ciò è significativo soprattutto per i diritti inviolabili che richiedono prestazioni pubbliche.
In particolare, allo straniero, anche se irregolare, sono garantite «le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia e infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva» (art. 35, comma 2, T.U. immigrazione cit.). Ma pari tutela è data anche agli stranieri, minori d’età, con riferimento al diritto all’istruzione.
Circa il godimento di altri diritti sociali o di forme diverse di assistenza pubblica, al di là delle specifiche disposizioni normative che si occupano di garantireàl’accesso degli stranieri regolari al sistema sanitario o al sistema di istruzione e formazione anche universitarie (v., rispettivamente, artt. 34 ss. e 38 ss., T.U. immigrazione cit.), la legge predispone una forma rafforzata di tutela nei confronti delle discriminazioni «per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi» (art. 43, T.U. immigrazione). Queste – che possono essere anche soltanto «indirette» e che possono provenire sia dai privati, sia dalle pubbliche amministrazioni – trovano un efficace strumento di contrasto in uno specifico rimedio, che consente allo straniero di rivolgersi al giudice civile affinché esso ordini «la cessazione del comportamento pregiudizievole» e adotti «ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione» (art. 44, T.U. immigrazione).
In proposito, meritano una specifica segnalazione tutte quelle sentenze in cui i giudici civili italiani hanno condannato le amministrazioni locali a rimuovere comportamenti discriminatori, quali, ad esempio, quelli consistenti nella richiesta che ai fini di alcune forme di assistenza sociale fosse necessario possedere la cittadinanza italiana, ovvero dimostrare una residenza territoriale di lungo periodo (cfr. Tribunale di Brescia, ord. 12 marzo 2009; ma v. anche Tribunale di Udine, ord. 30 giugno 2010, che, nel pronunciarsi, ha «non applicato» la legge regionale che, per l’appunto, esigeva un determinato numero di anni di residenza e che, come tale, si poneva in radicale contrasto rispetto al diritto dell’Unione europea e, precisamente, al diritto a non essere discriminati, in quanto direttamente efficace in ogni Stato membro).
Recentemente, poi, anche la Corte di giustizia dell’Unione europea (con la sentenza in data 24 aprile 2012, causa C-571/10, Kamberaj) ha accertato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una legislazione (nella specie, adottata dalla provincia di Bolzano) che ” nell’ambito della distribuzione dei fondi destinati al sussidio per l’alloggio ” riservi ai cittadini di paesi terzi un trattamento diverso rispetto a quello riservato ai cittadini dello Stato membro ove essi risiedono.
Deve rammentarsi, infine, che lo straniero gode, per espressa previsione costituzionale (art. 10, comma 3) il diritto d’asilo, e ciò laddove dimostri che nel suo Paese gli venga «impedito (…) l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».
La questione della cittadinanza
Dalla veloce rassegna emerge subito un dato molto significativo. Sostanzialmente, lo straniero regolarmente soggiornante è formalmente posto su di un piano di parità, rispetto al cittadino italiano, con riguardo a una grande quantità di «diritti» o di «libertà», ivi comprese anche quelle situazioni soggettive in cui può risolversi la sua condizione di consumatore-utente di un servizio pubblico. Resta fuori dall’equiparazione, però, quel nucleo di «diritti» e di «libertà» cosiddetti «politici» che consentono la partecipazione al voto, sia sul piano nazionale, sia sul piano regionale o locale.
A quest’ultimo riguardo è opportuno rammentare che l’Italia, pur riconoscendo allo straniero regolarmente soggiornante il diritto a «partecipare alla vita pubblica locale» (art. 2, comma 4, T.U. immigrazione cit.), non gli riconosce anche il diritto al voto, non avendo ratificato integralmenteàla Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, adottata in seno al Consiglio d’Europa (entrata in vigore il 1° maggio 1997; più specificamente, l’Italia non ha ratificato il punto C di tale convenzione, denominato «Diritto di voto alle elezioni locali»).
Oltre a ciò, l’acquisto della cittadinanza italiana è, per lo straniero, un risultato ancora assai difficile da ottenere, specialmente in rapporto all’ampio potere discrezionale che lo Stato conserva circa l’accoglimento delle relative istanze.
Il tema, come è noto, è molto delicato e dibattuto, assumendo un’intensità peculiare con riferimento agli stranieri di «seconda generazione», ossia a quegli stranieri che risultano tali soltanto per il possesso formale di una cittadinanza diversa e che sono nati in Italia o vi hanno comunque trascorso la maggior parte della loro vita, frequentando la scuola e/o lavorando continuativamente.
In proposito, sono state avviate diverse iniziative, finalizzate all’approvazione di una nuova disciplina della cittadinanza, maggiormente inclusiva e basata, tra l’altro, sulla valorizzazione di una combinazione tra il criterio dello ius soli (ossia della possibilità di acquistare la cittadinanza in base alla nascita sul territorio italiano) e l’accertamento simultaneo di altri requisiti (l’essere nato da genitori residenti in Italia da almeno un certo periodo; l’essersi istruito in Italia per un certo numero di anni).
Tra le varie proposte di riforma che sono state formulate in questa direzione meritano certamente un cenno quella di iniziativa popolare chiamata «L’Italia sono anch’io» (www.litaliasonoanchio.it) e quella, viceversa, parlamentare, a firma Sarubbi-Granata, presentata il 30 luglio 2009 (n. 2670). Entrambe le proposte, poi, avanzano modifiche alla disciplina vigente anche con riferimento ai tempi e ai modi di altre modalità di acquisto della cittadinanza (per matrimonio; dopo essere stati comunque residenti per un certo periodo e avendo conseguito una certa soglia reddituale ecc.).
La questione della cittadinanza e della definizione dei suoi criteri e dei suoi confini non è tema nuovo (in generale, se ne è già discusso in questa stessa Rubrica: Ripensare la cittadinanza, in Madrugada, n. 80, 2010, 20-21).
Per un qualsiasi paese, si tratta sempre di opzioni potenzialmente «vitali», capaci di condizionarne le possibilità di crescita, di sviluppo e di «competitività». Ma non è soltanto un problema di «risorse», di energie più giovani e motivate, di «propellente» nuovo per «motori» costretti a «riconvertirsi» in grande velocità. Per uno Stato che intenda dirsi democratico, tali opzioni comportano una sfida ancor maggiore, che ha a che fare con la necessità di sciogliere, progressivamente, la distanza tra i diritti riconosciuti a ogni uomo e i diritti riconosciuti ai soli cittadini.
In ballo, infatti, ci sono orizzonti più ampi: «la presenza di altri che non condividono le memorie e la morale della cultura dominante sollecita il legislatore democratico a riformulare il significato dell’universalismo (…). Ben lungi dal comportare una disgregazione della cultura democratica, sfide di questo genere mettono in evidenza la profondità e l’ampiezza della cultura della democrazia. Solo le comunità politiche saldamente democratiche sono capaci di questa riformulazione universalistica, attraverso la quale rimodellare il significato del loro essere popolo» (S. Benhabib, Cittadini globali, Bologna, 2008, 107).