Tecnologia

di Barcellona Pietro

Estensione o amputazione del corpo

Le odierne tecnologie – i nuovi media, le realtà virtuali, il ciberspazio, trapianti, eutanasia, nuova cosmesi, chirurgia plastica, droghe intelligenti, protesi di materiali inorganici che attecchiscono nella nostra carne, e così via – stanno cambiando la nostra fisicità, il nostro modo di vivere, le nostre stesse strutture del pensiero. Si potrebbe obiettare che tutte le tecnologie innovative hanno avuto questo effetto, dalla ruota alla televisione. Ma il fatto nuovo è che le tecnologie odierne non si limitano più a potenziare il nostro fisico o i nostri sensi. Esse agiscono in modo molto più determinante perché giocano con lo strumento primario del nostro rapporto col mondo, l’oggetto su cui si basa la nostra identità di uomini: il corpo. E anzi, oggi più che mai si rivela profetico un noto concetto espresso da McLuhan 35 anni fa, e che viene ad assumere un significato quasi letterale: «Ogni invenzione, o tecnologia, è una estensione o una autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri fra gli altri organi e le altre estensioni del corpo».

Conoscere e trasformare

Scrive Boncinelli: «L’uso delle macchine ha posto il collettivo umano in una posizione attiva rispetto al mondo circostante. O per meglio dire, più attiva, dal momento che il singolo deve, come ogni altro animale, prodigarsi comunque per sopravvivere e moltiplicarsi, e deve saper interpretare un suo ruolo all’interno dei gruppi di individui ai quali si trova ad appartenere. L’alternativa all’uso delle macchine, se di alternativa si può parlare, sarebbe consistita nel ritirarsi in sé stessi, limitarsi a contemplare il mondo e sforzarsi il più possibile di adattarvisi. In una parola, conformare per quanto possibile la propria interiorità al mondo invece di tentare di conformare questo alle proprie aspirazioni e ai propri sogni, trasformandolo e arricchendolo. Si tratta di una scelta non inevitabile, né del tutto consapevole, ma di capitale importanza. Una scelta, si badi bene, non sempre e universalmente apprezzata. Se è vero che Cicerone già nel 45 a.C. parlava, nel De natura deorum, di una «seconda natura» creata dall’uomo attraverso la trasformazione del territorio e la diffusione delle coltivazioni, è altrettanto vero che l’osservazione e la comprensione del mondo è stata spesso considerata enormemente più nobile della sua trasformazione e dell’uso di alcune delle sue parti; ancora oggi un atteggiamento teoretico e speculativo viene preferito a uno pratico, perché si assume che il primo colga l’essenza delle cose, ovvero i loro elementi necessari, mentre il secondo ha a che fare soltanto con gli aspetti contingenti della realtà. Senza che nessuno abbia mai dimostrato che si può veramente conoscere il mondo senza modificarlo, tanto o poco che sia.

E l’uomo non si è neppure accontentato di strumenti e di macchine singole. Da un determinato momento in poi ha riunito un certo numero di macchine in modo da comporre un sistema tecnologico, concentrato come una filanda o una fabbrica, o diffuso come una rete ferroviaria o telefonica. Sistemi e reti hanno modificato il nostro ambiente quotidiano e modificato la nostra vita. Siamo entrati così nell’età della tecnica».

L’autoaccrescimento della tecnica

La tecnica è figlia del processo di astrazione; per moltissimo tempo essa è stata guidata socialmente, poiché nasceva dalla produzione sociale che richiedeva strumenti. Oggi la tecnica si è autonomizzata dal rapporto sociale e si è incorporata nel rapporto produttivo, giungendo a un primato della ragione strumentale, dei mezzi sui fini. Se la tecnica si autonomizza, si realizza il fenomeno, descritto da Emanuele Severino, dell’organizzazione tecnica della tecnica: essa risponde solo alla propria potenza con l’unico fine dell’autoaccrescimento continuo; autonomizzata persino dagli scopi particolari, che ha asservito all’unico scopo di aumentare sé stessa. Oggi dalla tecnica ci si aspettano miracoli; si può immaginare che domani avremo protesi per tutto: si sostituiscono il fegato, il cuore, gli occhi, il viso, persino il cervello, con il rischio che questo possa determinare una trasformazione dello statuto antropologico dell’ uomo. La tecnicizzazione della vita è diventata ormai una realtà, siamo immersi nelle protesi e rischiamo quasi di diventare delle macchine. La fantasia dell’uomo libero è diventata la fantasia dell’uomo macchina e questo sta segnando una trasformazione epocale.

Liberarsi del corpo

Rispetto a questo scenario, ci possono essere diverse interpretazioni. Una visione particolarmente ottimistica è quella dello scrittore indiano Appadurai, secondo cui le profonde modificazioni delle culture di base in atto porteranno a un meticciato universale, con un linguaggio e un immaginario globali. Appadurai esalta alcuni aspetti della globalizzazione che, a suo avviso, hanno portato a un grande meticciato universale: nell’immagine di un avveniristico quartiere tedesco abitato prevalentemente da turchi che ascoltano dalle loro case le registrazioni delle preghiere dell’imam, in un «matrimonio spurio» tra la cultura del funzionalismo architettonico tedesco e la memoria attualizzata dei riti, Appadurai, vede una possibilità di coesistenza pacifica, in un mondo in cui si costruisce un immaginario globale, tra i vernacoli locali e un linguaggio universale che è quello mediatico.

Appadurai valuta positivamente i processi migratori, che legge come una possibilità per l’individuo di liberarsi dai vincoli territoriali che prima lo incastravano, diventando un soggetto nomade; l’idea del nomadismo diventa una liberazione assoluta dai vincoli e persino dal corpo.

E c’è proprio la possibilità di liberarsi del corpo con la realtà virtuale, con la mediatizzazione del reale.

Desideri e legami

Un forte pessimismo serpeggia in molti autori che vedono nella tecnicizzazione della vita l’enorme rischio di farci sfuggire di mano i meccanismi della tecnica – realizzando prodotti che non siamo inàgrado di controllare, come nel caso del nucleare – e che constatano come ci troviamo di fronte a una continua distruzione della natura, nonché a una crescita smisurata delle città, che porta a una perdita di identità.

Si è persa l’idea di confine e si è persa l’idea di limite, tutto può essere fatto: al posto della libertà è subentrata una ideologia del desiderio.

La modernità aveva portato in campo una nuova idea di libertà, ma anche l’idea di dover costruire dei legami, dei vincoli, aveva reinventato la democrazia, aveva inventato la possibilità di vivere in una società del benessere ma allo stesso tempo aveva costruito lo stato sociale; adesso è come se si fosse liberata di questa parte, di questo rapporto che la teneva ancorata alla materialità della vita, e si sia invece affidata solo alla libertà e al desiderio.

Credo che si debba mettere in discussione questa idea smisurata del desiderio, in cui si è perso il senso del limite, perché perdendo il senso del limite si ha una rimozione, una negazione delle passioni. La libertà senza vincoli è il contrario della relazione, è la negazione dei legami sociali. La libertà è per sua natura senza vincoli, mentre l’amore è per definizione vincolo.

La modernità ha negato le passioni: nonostante siamo circondati da tante rappresentazioni dell’eros, viviamo in una società senza amore, fatta di discontinuità, in cui ci sono tante storie, ma non c’è una storia. È la società che Marx aveva previsto, quando descriveva la rivoluzione borghese come la dissoluzione di tutto ciò che è sacro.

Pietro Barcellona
docente di filosofia del diritto
università di CataniaBreve itinerario attorno a una parola