L’uomo e la tecnica
La tecnica, intesa come parola-segno del nostro tempo, le riflessioni sulla portata di questa constatazione per l’essere umano, rimarranno ancora a lungo al centro del dibattito fra le scienze storico-sociali e le scienze naturali. Grosso modo, due sono le posizioni in campo a proposito dell’orizzonte di senso che la tecnica avrebbe inaugurato, l’una radicalmente pessimista e critica degli effetti di liquidazione dell’uomo che gli apparati tecnici determinerebbero, l’altra entusiasta delle innumerevoli possibilità che essa apre di fronte al progresso scientifico, tecnologico e sociale. Pur nella loro inconciliabile distanza, entrambe sembrano dunque concordare su almeno un punto: viviamo in un mondo dominato dalla tecnica, il nostro tempo ne è la prova.
Heidegger: un modo della verità
La vasta letteratura di riferimento, a partire ovviamente dalla famosa conferenza di Heidegger del 1953, si può dire sia in qualche modo compresa fra l’ottimismo cibernetico della filosofia post-umanista di Roberto Marchesini e il pessimismo radicale, apocalittico, di Gunther Anders, l’autore che più di ogni altro ha spinto fino in fondo la critica alle due più importanti ideologie contemporanee collegate alla tecnica: la retorica della modernizzazione e la retorica della complessità. Da questo punto di vista, questo breve articolo assume solamente un valore di suggestione.
Nel saggio di Heidegger sulla tecnica, tra le molte linee di riflessione che esso apre, spicca per importanza l’idea per cui la tecnica, specificamente quella inaugurata dal metodo scientifico e dal processo di industrializzazione, non possa più definirsi come semplice mezzo o strumento, ma indichi qualcosa di più radicale rispetto alla propria essenza e, per riflesso, a quella dell’uomo. I problemi che la tecnica pone, infatti, non possono essere ridotti a una definizione semplicemente strumentale, perché questa non è più sufficiente. In questo senso l’autore è chiarissimo, la tecnica non è un mezzo, ma è un modo della verità (alétheia). Ma questo significa che la questione della tecnica, per noi, oggi, non è più quella relativo al controllo che se ne può fare e ai limiti di questo controllo, ma è un problema che ha a che fare appunto con la verità di noi stessi, con l’essere politico del soggetto, con la sua libertà. Qui c’è l’idea, peraltro generalmente condivisa, che il sodalizio tecnico-scientifico non sia semplicemente un metodo per scoprire il mondo e le sue leggi, ma per costruire un mondo secondo la propria capacità di impiegarlo e di renderlo funzionale alle finalità che, di volta in volta, il proprio progresso rende possibili.
Anders: resistere, nascondersi
Lo stesso vale per l’essere umano, basti pensare ai livelli raggiunti dai progetti di ingegneria genetica umana, alle tecniche di manipolazione del soggetto, ai grandi apparati che oggi gestiscono la vita di tutti e di ciascuno fin nel minimo dettaglio. Ma anche senza spingersi verso territori così estremi, è sufficiente rendersi conto di come ogni singolo individuo sia costantemente coinvolto all’interno di dispositivi capaci di prelevare dati sensibili, monitorare le scelte di vita o professionali, misurarne i gusti e le abitudini di consumo, regolarne il movimento e la normale circolazione: insomma delimitare per ciascuno il perimetro delle proprie libertà (senza bisogno di fare grandi digressioni, è sufficiente vedere un film ben prodotto come Welcome di Philippe Lioret, per capire cosa si intende per limitazione delle libertà individuali. Ma si potrebbero fare molti altri esempi simili, come Le vite degli altri o La conversazione, l’ormai datato capolavoro di Francis Ford Coppola).
In questa prospettiva, una delle posizioni più interessanti rispetto al ruolo che il soggettoàpuò ancora giocare nel mondo dominato dalle tecniche, ci viene offerta dall’opera di G. Anders. Se la tecnica è un modo della verità, se appunto, secondo la formula greca, la verità è togliere il nascondimento (kryptesthai), il celarsi dell’essenza delle cose, opporsi alla pervasività del progetto tecnico-scientifico significa, in qualche modo, rimanere nascosti. Da qui l’espressione andersiana:
«Essere nascosto è probabilmente la conditio sine qua non dell’essere individuale (…) La verità viene ostacolata dall’essere individuo».
Davanti a una regola di questo tipo, non può passare inosservato il valore affermativo, da un punto di vista politico direi addirittura resistenziale, che il nascondimento agisce per l’uomo moderno al cospetto della hybris tecnologica, per cui l’essere nella sua totalità, le persone, la natura, le cose dovrebbero in qualche modo e sempre rientrare nell’orizzonte di ciò che può essere utilizzato, sfruttato con profitto. Banalizzando un po’, l’idea è che avere cura della propria identità, della propria dignità di individuo, significa oggi non consegnarsi mai del tutto al brusio del mondo, alle immagini, opinioni e verità che quotidianamente ci vengono proposte attraverso i media, al rischio frequente di pubblicizzazione del privato (rischio presente, per esempio, sui social network, che pure qui non si vogliono demonizzare). Significa non fornire mai più dati di quelli che si rendono strettamente necessari per ottenere quello che ci si è prefissi, custodire nel pudore la propria vita privata, per condividerla solo con le persone che ci appartengono; conoscere le fonti e confrontarne sempre più di una, quando si stanno attingendo delle informazioni. Insomma fare un po’ di fatica. Sapere che, oggi, esistere come individuo vuol dire esistere politicamente. E che essere un soggetto politico significa soprattutto resistere.
Marco Opipari
ricercatore universitario,
componente la redazione di Madrugada