L’inedito attuabile
Riscoprire la verità
«La giustizia senza la forza è impotente;
la forza senza la giustizia è tirannica.
Bisogna dunque mettere insieme la
giustizia e la forza;
per giungervi bisogna far sì che
ciò che è giusto sia forte
e ciò che è forte sia giusto».
Blaise Pascal
«Vivere le cose ultime significa vivere
altrimenti le cose penultime».
Giorgio Agamben
Lasciarsi riempire dal silenzio
Durante la preghiera mattutina un angelo apparve a cinque rabbini e disse: «Oggi vedrete il Messia!».
Ormai era sera e il sole, come una palla di fuoco, rosso, scendeva nella calda Palestina. Il primo, un razionale: «È tutto un inganno, è tutta una produzione della mente, ci siamo creati tutto noi. In realtà non c’è niente da vedere».
Il secondo, una iena, pieno di rabbia: «Quell’angelo maledetto, mi aveva promesso che l’avrei visto!».
Il terzo, un rassegnato: «Dio non si può vedere. Dio nessuno lo ha mai visto, perché dovrei vederlo io?».
Il quarto, un ossessivo: «Sto guardando tutti i volti per vederlo, ma non l’ho ancora trovato. Lo troverò, dovessi cercarlo cent’anni!».
Il quinto di ritorno dal lavoro, si sedette lungo la strada, guardò con meraviglia e stupore il tramonto del sole e l’intensità dei colori. Si lasciò riempire dal silenzio e dai lievi rumori attorno. Sentì che quel sole era fuori ed era dentro di lui.
Si sentì felice, immerso nel creato e al centro dell’universo e disse: «È vero, oggi ho visto Dio».
Bortolo in città
Siamo in una città, capoluogo di provincia, nel ricco Nordest italiano. Qui, purtroppo, l’Italia è percepita freddamente come uno Stato di appartenenza, non come la nostra nazione.
Una città bella, elegante, pulita, un po’ bigotta e ripiegata su sé stessa. Amministrata, con arrogante devozione, da un gruppo dirigente spocchioso, intento più a nascondere le rughe della sua sterilità che a combattere il suo individualismo ipocrita.
Un uomo, lo chiameremo Bortolo, girava per questa città, portando scarpe da tennis colorate, parlando da solo, rincorrendo, da tempo, un bel sogno d’amore. Lo conoscevano tutti come l’uomo dei cassonetti, dove si può trovare, in ciò che altri scartano, qualcosa di cui poter vivere.
In una gelida mattina dello scorso inverno, Bortolo è stato trovato privo di vita accanto a uno dei suoi cassonetti, pronto a essere spazzato via con la ramazza.
Qualche giorno dopo la polizia ha scoperto un conto in banca, intestato a lui. Vi era depositata l’eredità della madre, i risparmi di una vita, ma Bortolo non li aveva mai voluti toccare. Forse, in passato, aveva conosciuto l’onta del rifiuto e dell’abbandono, perciò aveva deciso di vivere così, coi rifiuti della società del consumo, libero da tutto, proprio perché non possedeva nulla.
La storia di Bortolo sarebbe stata degna, forse, di essere immortalata, raccontata da grandi scrittori (Victor Hugo o Kafka, Pasolini o Malaparte), invece di un solo misero trafiletto in cronaca.
Un euro e via
È sintomatico! Viviamo ormai in un mondo che, a ogni livello – politico, economico, sociale ed ecclesiale – sembra aver sostituito l’attenzione per i segni dei tempi con i tempi truccati, segnati da una cultura frivola, quella della banalizzazione, dove i valori vengono confusi e dove si sacrifica la visione a lungo termine con l’immediato.
Un’epoca di oscurantismo bugiardo (Mario Vargas Llosa), che identifica l’oscurità con la profondità e dove tutto, proprio tutto, diventa puro intrattenimento, lasciandoci in un vuoto che resta scoperto.
Forse Bortolo voleva dirci che un’epoca e un mondo stanno per finire e che è tempo di costruirne un altro, possibilmente migliore. E dire… che lui non si era laureato alla Bocconi!
La povertà è il male più grande e il peggiore dei delitti, ed è per questo che la vera scelta di Cristo e del cristiano non è tanto per la povertà, intesa come soggetto sociale negativo, causa di abiezione della dignità umana, ma per il povero che deve essere liberato da questo suo stato di umiliazione.
Il povero inganna, mentisce, esagera per mostrare il suo bisogno. Se mostra più bisogno del vero, forse avrà una risposta al bisogno vero. La menzogna del povero non giustifica la nostra avarizia.
Dicono che da noi nessuno ha davvero fame: ci sono le mense, si trovano abiti nei centri d’accoglienza. Sì, ma chi chiede ha bisogno di qualcosa di più, magari di una relazione umana più prossima. Se, infatti, parli con lui o almeno lo saluti, gli dai qualcosa in più di un euro. Ilàsistema degli aiuti ci deve essere, ma l’appello di te a me, ora e qui, passa e non torna.
Il muro della discordia
Diventa buono chi riceve bontà. Questa è la salvezza. Diventa creativo e sostenitore chi è creato e sostenuto e ne diventa attivamente cosciente con la gratitudine. Essere buono consiste nel far essere. Essere cattivo consiste nell’annullare, mortificare, ricacciare nel nulla ciò che è.
Chi è buono salva, per questo è salvo. La salvezza non sta nell’evitare un castigo (l’inferno), ma nell’andare dal nulla a essere, dalla morte alla vita, dal poco che siamo alla pienezza felice.
Chi è buono ama essere, ama l’essere, fa essere e non teme l’attacco del nulla, gli resiste, perciò dona la sua vita e la salva così. Se la trattenesse per paura di perderla, l’avrebbe già perduta, in preda al nulla.
Chi è buono diventa pacifico, cioè non teme i conflitti, li affronta, anzi, come occasione di verità (Gandhi), con strategie positive, costruttive. A questo si arriva liberi dalla paura di soffrire e di morire. Poiché morire è certo e necessario; il più desiderabile dei modi è, però, cadere in piedi, per uno scopo. Per questo i giusti desiderano la morte viva, significante, che già risorge.
L’attuale crisi economica non è certamente settoriale e transitoria, ma generale ed epocale. La corsa al progresso mitizzato ha battuto contro il muro del limite. Si potrà forse rimediare qualcosa, ma il nostro modo di vivere non potrà più essere lo stesso e neppure le relazioni mondiali.
Il dogma della crescita economica infinita, come cura della crisi, è molto diffuso. Sembra addirittura essere la ricetta dei governi, ma è un dogma infondato.
L’economia finanziaria, che crea denaro da denaro, senza passare dalle merci, è illusoria e perfino pericolosa, per il suo potere incontrollato che sta sovrastando la politica.
Il problema ora è, però, come affrontare questo potere.
Come rimediare a una crisi di governabilità, a una crisi etico/esistenziale, che questo neo/ultra capitalismo sta producendo? Sta crescendo, in maniera esponenziale, un individualismo esasperato, un’avidità e un’invidia distruttive, una costante perdita di valori sociali fino a diffondere, nelle persone comuni, disorientamento, depressione, crisi spirituale, paura o rassegnazione.
La vita, s’allunga; il futuro, s’accorcia
Che la crisi del capitalismo abbia a che fare con le banche, è risaputo, ma cosa hanno a che fare le banche (di credito) con la fede? Aver fede è fare credito, sentire di poter dare fiducia, aprire un futuro. «In quest’epoca – scrive il filosofo Giorgio Agamben – troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del credito, che ne è del nostro futuro? Il capitalismo finanziario – e le banche, suo organo principale – funzionano giocando sul credito, cioè sulla fede degli uomini». Per Walter Benjamin il capitalismo è, in verità, una religione, la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione, né tregua e va presa alla lettera. «La banca, governando il credito – aggiunge G. Agamben- manipola e gestisce la fede che il nostro tempo ha ancora in sé stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile, lucrando denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso. In questo modo governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro sempre più corto».
La politica, oggi, non è più possibile, perché il potere finanziario ha sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Come affrontare, allora, questa crisi? Uscendo, innanzi tutto, dalla prigione mentale di chi predica «non si può tornare indietro», in nome del mito del progresso materiale inarrestabile, il quale invece oggi è davanti all’abisso. Convincersi, poi, tutti che l’economia (la casa ben regolata) è parte della morale e va quindi osservata e governata dal di fuori, dal punto di vista delle primarie esigenze umane. Non basta, cioè, oliare e riparare il meccanismo, se non valutiamo prima cosa e come produce. Non bastano gli economisti a fare umana l’economia, occorre la regola umana. La macchina economica non ha anima e scopi. Questi sono patrimonio di chi la guida e dei popoli che sperano di viaggiare con essa. È necessario, quindi, lavorare a una cultura umanistica ed etica dell’economia.
Keynes, un’ingenuità profetica
Nel 1930 J. Keynes scriveva queste incredibili parole: «Non è ancora arrivato il momento di preferire il buono all’utile… per un centinaio di anni dovremo fingere che il giusto è cattivo e il cattivo è giusto: perché il cattivo è utile e il giusto non lo è. L’avidità, la cupidigia e la cautela devono essere le nostre divinità ancora per un po’ di tempo, poiché solo queste possono condurci fuori dal tunnel della necessità verso la luce del giorno».
Queste parole sorprendono, per la loro ingenuità, riguardo all’essere umano. Con la stessa ingenuità con cui i bambini dicono quello che noi non riusciamo a pronunciare, Keynes ha ammesso che il nostro sistema economico si fonda sull’avidità e l’ingiustizia e che le sue grandi parole etiche (servire il paese e creare posti di lavoro) non sono altro che chiamare giusto ciò che è cattivo.
Sta salendo, intanto, una protesta indignata da tutto il mondo occidentale, compresi alcuni soggetti dai paesi più ricchi e sviluppati. Un’indignazione forte e necessaria per costruire assieme una coscienza critica collettiva.
L’indignazione non è ira, né odio, né violenza. È la reazione che sorge spontaneamente quando ci si avvicina con il cuore agli esclusi e si diventa consapevoli del modo in cui vengono trattati.
Quanti pretendono che la peculiarità della Chiesa sia la carità e non la lotta per la giustizia, mettono in evidenza una notevole mancanza di carità, poiché la vera carità conduce sempre alla fame di giustizia.
Se non chiudiamo gli occhi davanti alle barbarie del nostro mondo, l’indignazione per il dolore ci renderà attivi e consapevoli della necessità di uscirne e della possibilità di farlo attraverso una «fede indignata». Senza cercare il cielo sulla terra, ma tentando sempre di passare dall’umano maltrattato a quello che Paolo Freire ha chiamato «inedito attuabile».