Diritto e diritti in tempi di crisi
Quale crisi?
Di quale crisi stiamo discutendo nell’ultimo decennio?
D’istinto non possiamo che pensare alla crisi che ha avuto inizio negli Stati Uniti, travolgendo potenti intermediari finanziari, il sistema bancario d’oltreoceano e un grandissimo numero di famiglie americane. Questa crisi si è radicata, non ha risparmiato le multinazionali, ha aggredito il debito sovrano di molti Stati e anche dell’Italia, da tempo largamente «esposta».
È questa la crisi cui ciascuno pensa immediatamente, cui il diritto, sia globale, sia europeo, sia del nostro Paese, deve rapportarsi per adeguarsi a una sorta di costante rincorsa e per evitare dissesti che, per incidenza diretta o per le misure drastiche che l’urgenza suggerisce, possono farci perdere buona parte del nostro benessere e dei nostri diritti, soprattutto quelli sociali, frutto di conquiste già storicamente difficili.
A questa crisi, però, se ne deve aggiungere un’altra, ora lasciata in secondo piano, ma non meno rilevante.
Dal fatidico 11 settembre l’Occidente si è scontrato con le esigenze e i rischi dell’emergenza, impegnandosi, da un lato, in una faticosa e sistemica lotta al terrorismo internazionale di matrice fondamentalista, dall’altro, in un complesso processo di adeguamento dei propri principi e delle proprie organizzazioni politiche.
Anche con riferimento a questi eventi si può parlare di crisi: la «prosperità» delle società democratiche viene messa a repentaglio non solo dal pericolo di aggressioni violente, ma anche da un clima di paura, che alimenta conflitti culturali e sociali, e che induce i legislatori a mutare il diritto e a compiere scelte limitanti per diritti e per libertà, individuali e collettivi, che le Costituzioni affermano come inviolabili.
Quali rimedi?
Di fronte a simili crisi anche il diritto appare in crisi.
Da tempo è in atto una trasformazione profonda delle concezioni del diritto, così come affermatesi tra Ottocento e Novecento. La fiducia nella capacità della legge come espressione della sovranità è venuta gradualmente meno, per l’affermazione di poli alternativi di produzione del diritto (europeo e internazionale), ma anche per la parallela obsolescenza degli strumenti tradizionali della politica (ossia dei partiti).
Tutte le azioni che il «classico» volto istituzionale del diritto (parlamenti e governi) si propone di mettere in campo, sono sempre esposte ai rischi della contingenza, dell’insufficienza, della precarietà, dell’affanno, della contraddizione, se non dell’esiziale cortocircuito.
Valga, in proposito, una semplice metafora. Si ha l’impressione che quel volto «classico» operi allo stesso modo con cui i medici operavano i loro pazienti prima che la scienza moderna fornisse loro cognizioni e strumenti adeguati. Talvolta quei medici raggiungevano comunque l’obiettivo della guarigione, ma essa, spesso, era solo temporanea o apparente, e moltissime volte si agiva secondo «protocolli» che riflettevano idee risalenti e «fallaci», votate a un gran numero di tragici insuccessi. Spesso si riteneva che fosse necessario colpire con forza la causa visibile del «male», senza sospettare, in difetto delle necessarie conoscenze, che in molte ipotesi sarebbe bastato «curarne» le cause remote.
La metafora è intrigante, perché ci suggerisce di non pensare al diritto come a un fenomeno statico, e di diffidare di fronte alle grandi semplificazioni dei dibattiti sulle tante riforme possibili. Restando alla metafora, queste riforme rischiano di assumere la forma di «violente» operazioni chirurgiche, capaci di privare il corpo sociale di diritti e di libertà, così come si potrebbe fare di fronte a un principio di infezione di un arto ferito. Eppure oggi sappiamo che l’amputazione il più delle volte non serve e che la penicillina può fare davvero «miracoli».
Fatti e temi ricorrenti
Non è così vero che le crisi di cui siamo spettatori ci pongono fatti o temi impensabili, idonei a spingerci verso comportamenti inevitabilmente rivoluzionari o insperabilmente catartici.
Sul piano dell’emergenza, non vi è nulla di più vecchio o ricorrente delle questioni sollevate dal paradigma dello stato d’eccezione o dalla logica «amico-nemico», su cui anche in questa rubrica ci si è soffermati (v. in Madrugada, nn. 55 e 59).
Quanto alla crisi economica, può essere curioso annotare che in un libro del 1984, Le istituzioni della recessione, curato, per Il Mulino, da Marco Cammelli, si trovano espressi, in modo sorprendente, molti degli interrogativi che animano, ancora oggi, il dibattito pubblico italiano: qual è, nella crisi, il ruolo dei sindacati e della contrattazione politica? Come gestire la riduzione delle risorse disponibili e le aspettative dei «gruppi di pressione»? Occorreàrivedere in toto l’organizzazione amministrativa e i sistemi di rappresentanza degli interessi? La sana gestione della finanza pubblica impone «automatismi» o lascia spazi utili di «discrezionalità»? In che modo si deve interpretare il rapporto «centro-autonomie locali» nella programmazione degli interventi da realizzare? E si potrebbe continuare.
Certamente il quadro degli anni Ottanta non è quello attuale, anche perché ciò che allora lo Stato, da solo, poteva fare, oggi non è più disponibile, spettando a livelli di governo sovranazionali. Ma è molto interessante la continuità dei linguaggi, sia per sostenere che esiste un laboratorio di proposte e di teorie cui attingere anche in questo momento, sia per dimostrare che, invece, non è più possibile seguire quegli itinerari e che l’insistenza sulle medesime dialettiche è il frutto dell’inadeguatezza delle forze intellettuali che provano a stimolare la trasformazione delle istituzioni con stilemi datati.
Si ripresenta, inoltre, un problema di giustizia distributiva, con riedizione di secolari tensioni, tra chi ritiene che l’ordine economico-sociale non tolleri interventi pubblici incapaci di assecondarne l’evoluzione e chi pensa che l’ordine giuridico abbia il compito di condurre le aggregazioni umane verso determinati risultati.
A rischiare la crisi sono le opzioni che lo Stato costituzionale di diritto ha fatto nel secondo dopoguerra, in un momento in cui si è ritenuto che l’ordine costituzionale dovesse occuparsi di dirimere / dirigere i conflitti economicosociali in funzione di una maggiore uguaglianza sostanziale e al fine di rendere maggiormente accessibili determinati diritti. Anche in questa prospettiva l’atteggiamento da tenere può essere duplice: da un lato, non difettano gli spazi per scelte politiche anche molto forti (ma il loro livello deve essere condiviso su di un piano superiore a quello delàsingolo Stato, quanto meno europeo); dall’altro, è salda la tesi di chi ritiene che il riproporsi della contrapposizione tra letture liberali e letture socio-democratiche è sintomo di una tendenza anti-storica (poiché essa può offrire modelli interpretativi all’interno dell’esperienza statale, ma non all’interno di quella globale).
Tra declino e opportunità
Di fronte a questo intreccio di fenomeni e di argomentazioni, il pericolo vero non pare esaurirsi nell’ipotetico aggravarsi della (o delle) crisi.
Il primo pericolo è l’affermazione dell’inevitabilità del declino, nell’accettazione di conflitti che esigono solo scelte polarizzate e auto-distruttive, indipendentemente dal livello in cui vengano assunte. È l’approccio che illustri filosofi considerano come orizzonte necessario, connesso inestricabilmente alla civiltà della tecnica, che non riesce a garantire giustificazioni assolute, se non quella della sua stessa logica pervasiva. Ogni scelta politica diverrebbe strumento di ciò che il traguardo tecnologico riesce a promettere, e l’affermazione globale di logiche neo-capitalistiche (e, si potrebbe dire, decostituzionalizzanti) non sarebbe altro che la prova del carattere del tutto dominante del linguaggio scientifico (cfr. E. Severino, Téchne. Le radici della violenza, Milano, 2002).
Per altri la tecnica costituisce la ragione per spazi politici nuovamente praticabili non tanto perché sia divenuta logicamente irrinunciabile, quanto per il fatto che essa, materialmente, permette all’uomo di godere di un ecosistema sensibile anche alla risoluzione dei contrasti emergenti nell’ambito dell’ordine economico-sociale. Lo Stato costituzionale di diritto non è «al capolinea»; i suoi principi sarebbero tuttora validi, anche su piani diversi da quello «statale», e potrebbero essere rafforzati laddove se ne valorizzasse la diffusione ai fini di una metabolizzazione effettiva di valori progressivi di ricerca continua, di formazione-informazione generalizzata, di incentivazione a godere realmente dell’espressione creativa dei propri diritti e libertà.
A quale destino si pensa di appartenere? A chi scrive piace pensare che ci siano i margini per poter seguire la seconda strada.
Se la tradizione costituzionalistica statale è sotto stress, ciò non significa che essa non possa riaffermarsi anche a livelli diversi (l’Unione europea sta vivendo un procedimento che la immette in una simile direzione). Oltre a ciò, occorre confidare in un ruolo strategico apparentemente molto generico e lento, ma alla fine decisivo: quello dei cittadini, attivi e sempre vigili, pronti a difendere e a praticare i propri diritti e le proprie libertà in ogni sede. Per rendere fruttuosa questa fiducia, occorre fertilizzare l’humus della cittadinanza, e su questo profilo la politica ha ancora tutto lo spazio che le compete per far sì che le iniziative meritevoli della società civile siano agevolate e premiate.
Non è la soluzione, rapida e univoca, e importa impegno, oltre che la spendita di tutte le proprie energie. Ma, come ci ha insegnato Zenone di Elea nel V sec. a.c., se la tartaruga si muove, anche il veloce Achille non può mai raggiungerla.
Fulvio Cortese
ricercatore stituzioni di diritto pubblico
facoltà di giurisprudenza
Università degli studi di Trento