L’eclissi della politica
Il ricambio politico del novantadue
Fra i paradossi che gli storici del futuro si troveranno a dover affrontare studiando l’Italia di oggi vi è un dato di fatto: dal 1992 una leva di «esterni» al ceto politico è arrivata al potere, sostituendosi per almeno un ventennio ai «vecchi» politici, proprio in nome della critica alla politica professionale.
Che si fosse creata, negli anni del Caf (Craxi – Andreotti – Forlani), una nomenclatura che viveva di politica, non per la politica, era vero. Che si dovesse cambiare stile e – sulla scia di quanto avveniva nelle città greche dell’antichità e di quanto avviene in altri contesti contemporanei – procedere verso una società in cui il politico abbia una propria professione e solo per periodi determinati dell’esistenza si dedichi a servire il bene comune, era altrettanto vero. I risultati però sono stati ben diversi da quanto ufficialmente auspicato: magistrati, imprenditori, giornalisti, professori, operatori del mondo del volontariato, elettrotecnici e soubrette, odontotecnici e steward… hanno sostituito i padroni dei partiti politici spazzati via da Mani pulite, ma si sono abbarbicati alle poltrone con tenacia non certo minore rispetto al passato.
Tutto come prima, dunque? Per certi versi no. Bisogna riconoscere che, sino a oggi, il quadro complessivo è peggiorato.
L’avvento dell’antipolitica
Innanzitutto è peggiorato dal punto di vista della mentalità. La (legittima) critica alla politica «cattiva» è diventata (illegittima) critica tout court alla politica.
Un giochetto non nuovo nella storia italiana. Anche il ventennio fascista si aprì all’insegna di un «movimento» che non era partito, bensì «antipartito»; che non professava nessuna delle ideologie (liberalismo e socialismo) ormai «superate», bensì una nuova «idealità» duttile sino al camaleontismo più opportunista; che si basava sull’evidenza del consenso popolare, guardandosi dal verificarne la persistenza mediante libere elezioni; che si vantava di promuovere i valori laici della tradizione romana imperiale ed erigeva nelle università cattedre di «mistica fascista». Insomma: quando qualcuno celebra i funerali della politica, lo fa non per seppellirla (impresa poco auspicabile, ancor meno possibile), ma per sostituirla con una propria arbitraria occupazione delle istituzioni pubbliche. Lo spiegava in una celebre lettera del 1944 Giacomo Ulivi, ragazzo di 19 anni che ha pagato con la vita di resistente al nazifascismo gli errori della generazione a lui precedente e la faciloneria con cui erano state affidate a pochi prepotenti le chiavi della casa comune: ci hanno fregato insegnandoci «la «sporcizia» della politica», più precisamente inoculandoci la doppia bugia che «la politica è un lavoro di «specialisti»» e che ognuno deve curarsi del proprio interesse privato, individuale.
Ma, rispetto all’inizio degli anni novanta, la situazione sembra peggiorata anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale della partecipazione politica. Nel corso della Prima Repubblica i notabili democristiani o socialisti o comunisti, per quanto potenti, avevano bisogno di tesserati che li rieleggessero ai vertici del partito, laddove i Berlusconi o i Bossi hanno eliminato persino l’apparenza del consenso democratico della base, in nome di un carisma individuale più indiscutibile che indiscusso, più imposto che meritato. In altri termini: sonoàstati smantellati i partiti politici (o cancellandoli del tutto o lasciandone in piedi solo lo scheletro formale).
Un futuro possibile dentro una nuova etica popolare
Bisognava invece – anzi, bisogna – rifondare i partiti accentuandone, non certo attenuandone, le garanzie di democrazia interna. Senza questa rifondazione, i partiti politici (prima e dopo il 1992) saranno condannati a restare – secondo la denunzia del politologo Duverger – una barriera, piuttosto che un ponte, fra le istituzioni e la società.
La vita democratica è questione di carte etiche, statuti e regolamenti procedurali? È questione di ingegneria organizzativa in grado di sostituire l’articolazione territoriale per «sezioni» e le forme di comunicazione cartacee mediante i fogli tradizionali? Senza dubbio, anche. Ma soprattutto è assicurata da un nuovo ethos pubblico che scardini, e ribalti, la tavola dei valori dominanti: che riabiliti i beni immateriali rispetto alle ricchezze materiali; la qualità della vita rispetto alle disponibilità finanziarie; la felicità duratura rispetto al vortice di piaceri sempre più eccitanti; il riconoscimento sincero del proprio valore rispetto al successo massmediatico; l’autenticità profetica rispetto al servilismo carrieristico; l’interattività degli incontri fisici e degli scambi telematici rispetto alla dipendenza dalla trasmissione unilaterale televisiva.
Un ethos pubblico che resterà nel libro dei sogni sinoàa quando le agenzie educative (famiglie, scuole, chiese, associazioni) non sapranno tradurre in pratica pedagogica diuturna sia sul piano cognitivo (che ne è dell’educazione civica, ormai meno che cenerentola delle discipline curriculari? Che ne è dell’etica sociale nei corsi catechetici di preparazione alla prima comunione, alla cresima e al matrimonio?) sia sul piano della testimonianza storica (genitori e insegnanti, preti e dirigenti di associazioni rinunziano a qualsiasi credibilità nella misura in cui i loro consumi, le loro abitudini, le loro relazioni sono quasi totalmente omologhi a quel regime di sperpero, di inquinamento, di chiasso e di prepotenza che – a parole – condannano).
Perché più cittadini, e soprattutto cittadini di stoffa migliore, dovrebbero dedicarsi al bene comune se la stragrande maggioranza non è disposta a seguire le vicende politiche, a protestare contro gli amministratori che abusano del potere, a encomiare e gratificare quanti invece svolgono, con competenza e trasparenza, la propria missione?
La strada verso una riscoperta della politica è lunga e in salita: passa per la convinzione che un’esistenza «privata» è più povera di un’esistenza spesa per «lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato». È privata, deprivata, della gioia di imprimere alla storia dell’umanità, sia pure per un breve segmento e in una minuscola mattonella del pianeta, l’orma della propria creatività e della propria operosità.