Solidarietà bugiarde
Riti della solidarietà
A proposito della solidarietà si scatenano regolarmente dei riti collettivi, delle vere e proprie liturgie sociali. I più in vista sono il rito gioioso, che si celebra intorno a Natale, e quello funebre così tipico dei momenti di crisi economica e sociale. A Natale e nella crisi si celebra solidarietà. Di solito i riti della gioia e i riti funebri vanno in scena in tempi diversi. Capita però, ogni tanto, che il loro tempo coincida. Quando succede si mescolano insieme la gioia e il pianto; e diventa allora più chiaro che, diverse tra loro, queste liturgie smarriscono la solidarietà, la cui verità è il senso dell’altro in quanto altro.
Cioccolatini e lacrime
La liturgia di Natale è un rito di gioia e di contentezza. Si diventa tutti più buoni ingurgitando un po’ di cioccolata e facendo della solidarietà. Da dove provenga questa cioccolata, in quali condizioni di lavoro venga prodotta, a chi vadano i proventi della vendita, è questione secondaria. Più importante è che il mondo tutto stia diventando più buono, grazie anche agli appelli, alle campagne mediatiche, in favore di singoli gesti di solidarietà.
La liturgia della crisi è un rito funebre, da venerdì santo o giù di lì. Dare qualcosa agli altri fa gioire e rende felici a Natale, fa piangere e crea infelicità nella crisi. Tra gioie e dolori, la solidarietà sbanda. Da un lato avvertimenti e minacce, sensi di colpa, ricatti morali e politici, nazionali e internazionali. Dall’altro lato lacrime e prediche in diretta televisiva, riempite con molti «purtroppo», «amen» e «così sia». Se a Natale la parola d’ordine della solidarietà è «si può fare qualcosa», nella crisi si trasforma in un «non si può fare altrimenti». Come nei matrimoni di guerra del primo conflitto mondiale, la liturgia funebre dei tempi di crisi sposa la solidarietà ai sacrifici e agli olocausti inevitabili.
La solidarietà della crisi deve immolare al più presto le vittime sacrificali, i capri espiatori vanno macellati in diretta. A Natale nessuno si chiede da dove arrivi la cioccolata che fa diventare buoni, nella crisi pochi si domandano cosa ci ha resi cattivi e meritevoli di essere rimproverati. Interessa solo che si è diventati cattivi, che si devono espiare delle colpe attraverso una solidarietà che confonde il peccato con il debito.
Solidarietà per gli altri?
Così piena di commozione e di affetti, così raccomandata dai media e dalle morali alleate al consumo, la solidarietà di Natale si presenta e pubblicizza sé stessa con enfasi, come una solidarietà per gli altri. Tutto sembra spingere verso gli altri e i loro bisogni, anche se è difficile dire se si vede davvero l’altro o non piuttosto sé stessi e la propria, momentanea esigenza di essere buoni. Che importa, direbbe qualcuno, quel che conta non è proprio il gesto d’aiuto, l’apertura solidale per gli altri, fare comunque del bene? Importa, e molto. La meta di una solidarietà della gioia e dei cioccolatini non è sempre chiara, non sempre sciolto il dubbio che il soggetto che compie e quello che riceve l’atto solidale siano alla fine la stessa persona.
La solidarietà per gli altri rischia di essere una solidarietà per sé stessi. Gli altri stanno lì, con le loro fatiche e le loro sofferenze, a dimostrare e a garantire la nostra bontà, per permetterci di poterla manifestare. Tutto perciò si capovolge: siamo noi a essere solidali per gli altri, o non sono gli altri che, nella loro povertà e nella loro miseria, risultano più solidali con la nostra voglia di essere buoni di quanto non lo siamo noi nei loro confronti? Per questo non interessa molto sapere di loro. Al primo posto viene l’immagine della propria bontà riflessa nello specchio della benevolenza di stagione.
… solidarietà per sé stessi
Nella solidarietà per gli altri non c’è rapporto, non c’è coinvolgimento. Tutto inizia e termina con il gesto generoso che dura lo spazio di un minuto. L’altro ha la stessa consistenza di un’immagine televisiva, di uno spettacolo del dolore sbattuto in prima pagina. L’altro diventa un fantasma. È lo spettro di fame, povertà, ingiustizia, violenza che, per fortuna, non ci riguardano veramente; e che ci permettono anzi il gesto di solidarietà. Perché questa solidarietà è poco più di un lusso dei giorni di festa; e anche perché della situazione dell’altro non ci si sente in nessun modo responsabili. I cioccolatini, i palloni, i giochi, gli addobbi natalizi, l’abbigliamento tecnico e sportivo, i componenti tecnologici, infatti, non hanno niente a che vedere con il lavoro sfruttato, offeso, derubato. Sarà proprio così? La solidarietà per gli altri assomiglia troppo a un distacco e a una dismissione.
Solidarietà con gli altri?
Le cose non vanno diversamente per la solidarietà dei tempi di crisi, dove tutti sono chiamati a pagare debiti pesantissimi e primari, sulla vita nuda, per il semplice fatto di far parte di una comunità nazionale e sovranazionale, di vivere senza averlo voluto in un contesto economico e finanziario globale. E allora, dirà qualcun altro, non è proprio ciò che si cercava? Non si tratta qui, finalmente, di una solidarietà con gli altri anziché di una più distaccata solidarietà per gli altri? L’altro adesso è accanto, fa parte della stessa comunità, dello stesso destino. In effetti, i ragionamenti pubblici e i predicozzi dell’ultima ora corrono spediti in questa direzione. Come in un immenso dispensario farmaceutico vengono prescritte quotidianamente pillole sciroppose di condivisione e di solidarietà. Almeno queste, gratis. La solidarietà serve nella crisi per giustificare – non per spiegare – i sacrifici di cui molti devono farsi carico per il bene comune da salvaguardare. E la solidarietà, mescolata ai sacrifici, al sangue, all’inevitabile, diventa (come è sempre stato in passato) messaggera di morte.
… solidarietà con nessuno
Nella solidarietà con gli altri si diventa tutti partecipi della stessa avventura in vista di un bene comune – quale, poi, di chi? – che, per essere raggiunto, deve attraversare le valli infernali della colpa, della prova, del debito, delle torture sociali e delle disoccupazioni, della vita e delle estorsioni, del lavoro che non finisce più e di quello che non inizia mai. Cosa si può eccepire a questa passione comunitaria che ci prende finalmente, così individualisti come siamo di solito? All’insperata conversione religiosa che associa la serietà, il rigore, la responsabilità con una disciplina ferrea che non disdegna le punizioni? Non basta essere con gli altri, tutti figli della colpa d’Adamo, tutti vestiti con le stesse divise, tutti adoratori dello stesso idolo, tutti debitori a qualcuno di qualcosa, perché la solidarietà sia rivolta all’altro in quanto altro. Si può essere con gli altri nell’indifferenza, nel malaffare, nella violenza. In virtù della colpa generalizzata diventiamo tutti uguali, troppo uguali, falsamente uguali. Diventiamo numeri. Nella solidarietà con l’altro si è solidali con tutti, e con nessuno.
Dov’è tuo fratello?
La solidarietà per l’altro lo prende in considerazione come specchio della propria bontà. La solidarietà con l’altro lascia cadere, in nome del debito, ogni distinzione e ogni responsabilità. Si spara nel mucchio perché la massa è un bersaglio più facile, più conveniente, più utile. Non importa neppure che qualcuno si ripari dietro ai cadaveri di molti. Contano solo i numeri, il quanto. Dov’è tuo fratello? Così diverse, la solidarietà di Natale e quella dei tempi di crisi sono simili, innamorate dello stesso rito del sacrificio dell’altro. L’altro è il riflesso della propria bontà, o uno in più. È un attimo, o un pretesto. L’altro esiste davanti a me per gratificare me stesso, o insieme con me per sperare, ciascuno, di salvare sé stessi. Non c’è differenza. Non c’è alterità. I cioccolatini nascondono le lacrime; le lacrime, non per forza di cose, i cioccolatini.
Franco Riva
docente università cattolica del Sacro Cuore,
facoltà di lettere e filosofia,
componente la redazione di Madrugada