Somalia
La crisi umanitaria
La crisi è molto grave in Somalia. Diciannove anni fa, nel 1992, ho vissuto direttamente una realtà del tutto simile a quella di oggi, con la fame, la guerra civile e l’estrema sofferenza della popolazione nelle regioni somale centromeridionali. Intersos, organizzazione umanitaria per le emergenze, nella quale sono direttamente impegnato, è intervenuta allora, è rimasta nel paese senza interruzioni e sta ora portando soccorso nelle regioni del Medio e Basso Scebeli e Bay. Se il «day», la seconda stagione delle piogge, sarà regolare, la gente potrà tirare un sospiro di sollievo. In queste ultime settimane, le precipitazioni sono state talvolta tempestose e, pur portando l’agognata acqua, stanno provocando inondazioni con gravi danni alle colture, attese da tutti dopo i mesi di carestia. C’è solo da sperare che gli acquazzoni non continuino e le inondazioni rimangano contenute, altrimenti la carenza di cibo fino alla semina con le piogge del «gu», nel giugno 2012, e al susseguente raccolto, aggraverà la già pesante situazione, che diventerà una vera e propria catastrofe umanitaria, di dimensioni mai viste negli ultimi cent’anni.
Eppure, rispetto all’analoga tragica situazione somala del 1992, che ha riempito giornali e telegiornali con pagine, servizi, immagini che hanno commosso il mondo provocando una risposta umanitaria di ampie dimensioni, la reazione odierna continua a rimanere tiepida. Sembra quasi che, col passare del tempo, di fronte alla tante crisi umanitarie nel mondo, il valore della vita e l’interesse per la sua protezione nelle situazioni di grande sofferenza stiano venendo meno. Gli stessi media non informano più: la fame, la morte, non fanno più notizia. Solo quelli di ispirazione confessionale, che mettono la persona umana e il suo valore al centro di tutto, riescono ancora a farlo.
La permanente instabilità
Ciò che in Somalia aggrava la situazione, rendendo difficile ogni intervento per prevenire le crisi, è la situazione di grande instabilità e permanente conflitto che dura da 20 anni. L’attuale carestia peggiora lo stato di sofferenza di due milioni di persone sfollate internamente o rifugiate nei paesi vicini a causa dei permanenti scontri e dei relativi problemi politici, anche perché la comunità internazionale non ha voluto prestarvi una adeguata attenzione e assicurare il necessario impegno per contribuire alla loro soluzione. Sono stati fatti errori, molti e gravi, e si continua a farne, puntando più su improbabili e fallimentari soluzioni militari piuttosto che sul riconoscimento della complessa realtà somala, molto diversa ormai da quella del passato, con dinamiche e con riferimenti radicalmente stravolti. Questi vanno riconosciuti e, con essi, o almeno con alcuni di essi, si deve interloquire, trovando canali di dialogo, di comprensione delle diverse ragioni, di mediazione, di soluzione politica, in sintesi di riconciliazione nazionale. Imposta dall’esterno, secondo le convenienze delle potenze interessate all’area, non funzionerebbe, come non ha funzionato nel passato. Piaccia o non piaccia, la soluzione o sarà somala o non sarà.
Divisioni e errori: la storia recente
Nel gennaio 1991 il presidente Siad Barre viene estromesso e seguono nove anni di scontri tribali per il potere, in una situazione di anarchia e di instabilità in quasi tutto il paese. Solo la regione nord occidentale del Somaliland dichiara subito e in modo unilaterale la propria indipendenza: anche se non riconosciuta da alcun paese, la regione riesce in questo modo a seguire un proprio cammino di stabilità e di ricostruzione politica ed economica. Anche la regione nord orientale del Puntland cercherà di seguire un’analoga strada di autonomia, ma ci riuscirà, con difficoltà, solo molto più tardi. Le regioni centro meridionali, inclusa la capitale Mogadiscio, rimangono invece ampiamente divise, in perenne conflitto, sotto il dominio di conquistatori e dei clan di volta in volta vincenti.
Nel dicembre 1992, confusa tra sostegno umanitario alla popolazione e imposizione della pace, ha inizio la missione militare delle Nazioni Unite. Mal pensata, mal preparata, mal governata, incerta e confusa negli obiettivi e nelle strategie, la missione termina nel 1995, umiliata e sconfitta da giovani miliziani scalzi e male armati.
Varie conferenze di riconciliazione si sono susseguite, da allora, su iniziativa e con il sostegno della comunità internazionale. Nell’ottobre 2000 la conferenza di Arta, in Gibuti, con l’ampia partecipazione dei clan somali, crea un governo nazionale di transizione con un mandato triennale e l’obiettivo di arrivare a un governo nazionale permanente. Ma la sua debolezza non riesce a impedire il perdurare degli scontri e la spartizione del territorio e di Mogadiscio tra i vari «signori della guerra» clanici. Una nuova conferenza in Kenya, la quattordicesima, durata due anni, è riuscita ad aprire nel 2004 una nuova fase quinquennale di pacificazione e ricostruzione nazionale, con una carta costituzionale federale transitoria, un parlamento su base clanica che ha proceduto all’elezione del presidente Abdullahi Yusuf, un primo ministro e un governo federale di transizione. Il quinquennio successivo avrebbe dovuto portare, nel 2009, a una nuova Costituzione, alle elezioni e alle istituzioni definitive. Ma la scadenza non è stata rispettata. Le istituzioni non sono state sufficientemente e convintamente sostenute dalla stessa comunità internazionale che le aveva promosse e alcuni signori della guerra hanno continuato a dominare.
In questa situazione di debolezza istituzionale e di confusione politica, nel giugno 2006 Mogadiscio viene conquistata dal supremo consiglio delle Corti islamiche con il consenso popolare e con risultati sorprendenti per quanto riguarda la sicurezza. Invece di cogliere l’occasione per aprire un confronto con le Corti – che all’epoca esprimevano maggioritariamente moderazione e volontà di definire una soluzione per l’unità e pacificazione della Somalia -, la comunità internazionale ha deciso di combatterle sostenendo la coalizione armata di alcuni discutibili signori della guerra che in breve tempo, com’era prevedibile, vengono sconfitti dalle Corti. Alla fine del 2006, l’invasione dell’esercito etiopico porta Mogadiscio sotto il controllo governativo. Ma la soluzione è malvista dalla maggior parte dei somali, tanto che, dopo 24 mesi, le truppe etiopiche si ritirano. Intanto l’opposizione, formata dalle Corti e da membri del parlamento in disaccordo con la presenza etiopica, si organizza all’Asmara in Eritrea.
Nel frattempo, una spaccatura all’interno delle Corti e la previsione del ritiro delle truppe etiopiche, accompagnato dalle dimissioni del presidente Abdullahi Yusuf, permette una nuova conferenza a Gibuti, in cui, nell’agosto 2008, vengono firmati accordi che confermano tali previsioni e fissano al gennaio 2009 la costituzione di un parlamento più ampio e rappresentativo e la nomina a presidente dell’ex capo delle Corti islamiche Sheikh Sharif Shaikh Ahmed, combattuto solo due anni prima.
Nel frattempo, in opposizione alle trattative e agli accordi, buona parte del territorio meridionale somalo è conquistato militarmente dai miliziani islamici «al Shabab», guidati dall’ala più radicale delle Corti islamiche, a cui si collega presto anche l’opposizione di quella parte delle Corti che abbandona la sede politica in Eritrea per ritornare a combattere in Somalia. Otto regioni meridionali su nove sono oggi sotto l’occupazione degli Shabab e delle formazioni alleate, tra cui l’Isbul Islam, mentre le istituzioni federali transitorie hanno influenza solo su Mogadiscio, protette da settemila militari del contingente dell’Unione africana.
Lo scorso ottobre sono entrate in Somalia anche le truppe del Kenya. La comunità internazionale continua a pensare però che le armi possano risolvere i problemi somali: due decenni non hanno ancora insegnato niente.
Ritornare decisamente alla politica
Ciò che succede in Somalia ha connessioni regionali e interne. Due, in particolare, dovrebbero guidare l’azione politica:
1. Il conflitto tra Etiopia ed Eritrea pesa su tutta la regione e quindi sugli altri conflitti come quello in Somalia o all’interno della stessa Etiopia, contribuendo a prolungarli, con le conseguenze politiche e umanitarie che abbiamo sotto i nostri occhi. Non sarebbe difficile risolvere il conflitto tra i due paesi, basato specificamente su un contenzioso territoriale sul quale una commissione delle Nazioni Unite si è già espressa in favore dell’Eritrea. Ma tra il gigante Etiopia e la problematica Eritrea, le ragioni e gli interessi politici internazionali finiscono per premiare sempre il gigante.
2. In Somalia, le istituzioni transitorie sono riconosciute dall’Unione africana e dalla Comunità internazionale. Non si stanno però facendo i conti con la realtà, sottovalutando che otto regioni centromeridionali sono controllate dagli Shabab e dall’Isbul Islam. Nel 2006 la Comunità internazionale ha rifiutato di aprire un dialogo con le Corti islamiche ed è stato un grave errore, riconosciuto ormai da tutti. Oggi, anche se in un contesto molto diverso e più difficile, si rischia di ripetere lo stesso errore. I risultati sono incerti, ma se si vuole passare dalla permanente fase di transizione a quella di stabilizzazione della Somalia, il dialogo politico è un passaggio obbligato, almeno con la parte nazionalista somala di tali raggruppamenti. Eppure si procede in modo opposto, semplificando oltremisura e travisando la realtà, identificando gli oppositori armati con al Qaeda e quindi rifiutando ogni iniziativa che non sia quella militare, che ha dimostrato di non portare da nessuna parte e di peggiorare la situazione.
A parte qualche comunicato o affermazione del ministro degli esteri che continua ad affermare che la Somalia rimane un paese prioritario per l’Italia, in realtà il nostro paese non c’è più. Ha perso un’occasione straordinaria di mediazione e di leadership, che gli stessi somali chiedevano.
Nino Sergi, Intersos