Il conflitto in classe
In premessa, l’alfabetizzazione estetica
Domani nella battaglia pensa a me
Fare la maturità è una bella esperienza. Non a diciotto anni forse, ma a posteriori sì. Insegnante di storia e filosofia in una secondaria paritaria, dopo qualche anno di latitanza, sono stato scelto come «interno»; così ho avuto la possibilità di vedere il lavoro dei «colleghi della statale» da molto vicino. Ho visto donne sensate e ragionevoli ascoltare le mie ragazze e i miei ragazzi, incuriosirsi di fronte alle loro intuizioni, seguire i ragionamenti con molta professionalità. Ho visto una presidente informata, attenta alla burocrazia ma capace di comprendere il senso della sua applicazione. Ho visto una scuola che funziona e che licenzia un gruppo di studenti soddisfatti del proprio percorso.
Un’oasi felice? Una serie di fortunate combinazioni? Al termine dell’anno scolastico, accompagnati dalla fisiologica stanchezza del lavoro didattico, abbiamo affrontato seriamente l’ultima delle prove di iniziazione rimaste per la gioventù. Abbiamo realizzato il dettato costituzionale applicando un sistema che, non solo nelle considerazioni critiche sulla presunta riforma, ma persino nei suoi fondamenti, sembra destinato a crollare su sé stesso. O almeno è questo che la pubblicistica sulla scuola, ringalluzzita dalle pseudo-innovazioni della gestione Gelmini, ci comunica: edifici fatiscenti, insegnanti demotivati, alunni ingestibili, genitori assenti, programmi antiquati.
Non sono cose lontane dal vero, ma come sempre riguardano alcune esperienze. Che però hanno la capacità – come il classico uomo che azzanna il cane – di orientare l’attenzione e fomentare la polemica politica che, fedele alla propria autoriproduzione, sosta unicamente sugli aspetti deteriori della questione. Su ciò che non va, su ciò che dovrebbe essere e non è.
In questo modo, della scuola sappiamo soprattutto i tratti negativi, che non vengono osservati per poi essere messi a confronto con la realtà quotidiana di ciascuno di noi, ma diventano lenti per leggere tutto. Se infatti viene messo in delirante evidenza che il problema sta nella disciplina, se su pagine e video rimbalzano bullismo e maleducazione, se si insiste sulla marginalità sociale degli insegnanti, sul loro proletariato di fatto, ecco che gli insegnanti stessi – molti di noi, non tutti – inizieranno a vivere la scuola solamente come un grande campo di battaglia.
Non intendo sostenere che non sia così per molti colleghi – le statistiche sulla sindrome da stress degli insegnanti parlano chiaro – ma che parlando di scuola si fatica sempre di più, parafrasando David Foster Wallace, a scegliere liberamente come e su cosa pensare, e ci si abbandona alla spirale delle profezie che si autoavverano.
Se ci si estranea per un attimo dal vociare in aula insegnanti o dagli scambi sedicenti pedagogici durante i consigli di classe, si può cogliere un dato evidente: «Si merita proprio una lezione…»; «Se tu alzi, io allora lo abbasso…»; «Mi sono sacrificato per loro e adesso…»; «Cerca sempre di fregarmi»; «Gli ho dato molte possibilità, adesso deve pagare»… Le parole parlano di insoddisfazione e di conflitto. Il linguaggio pubblico di docenti che a tu per tu si mostrano per lo più ragionevoli, si fa lotta all’arma bianca; come a dire, a invocare: riconoscete il mio lavoro, la mia fatica!
Competenze carsiche
Al termine dell’ora, Marco si avvicina alla cattedra. Mi guarda fisso e dice: «Prof, non sia deluso». Azzardo una domanda, ma so già di esser stato svelato: «Per che cosa?». «Per l’interrogazione. Ha dato loro molte possibilità, ha formulato domande di varia difficoltà. Non hanno saputo rispondere. Ma non è colpa sua… Raccolgono quel che hanno seminato». In una logica in cui il conflitto è congelato e non detto, qualcuno penserebbe a una classica captatio benevolentiae, a margine di una delle tante delusioni nella battaglia per l’apprendimento: io spiego, voi non avete voglia di fare. E invece non è così, ma noi sembriamo non possedere le parole per dirlo. Se infatti analizzo a posteriori quanto Marco ha detto, rilevo in lui una serie di capacità. In primo luogo l’empatia, il poter cogliere la situazione emotiva altrui senza esserne allagati. L’assertività, come caratteristica propria di chi è in grado di esprimere in modo efficace le proprie posizioni senza dare un giudizio di valore, né aggredire l’interlocutore o il soggetto del discorso. Un certo pensiero divergente, tale per cui si prende una posizione personale originale rispetto al gruppo. E infine, sottointese, alcune conoscenze specifiche, che hanno permesso al mio studente di rilevare i limiti delle risposte altrui date durante l’interrogazione.
A eccezione dell’ultimo riferimento, il resto non trova spazio di valutazione, né solo di considerazione, nella scuola in cui operiamo, che ha assunto un tale livello di sclerotizzazione da aver maturato anticorpi a questo tipo di lettura. Abbandonato il terreno abitudinario dei contenuti/voto e fatto cenno alla complessità della relazione docente/discente, scatta l’obiezione definitiva: il nostro compito non è fare gli psicologi. Così il convitato di pietra, lo spettro che si aggira per le scuole, il conflitto, viene conservato e riprodotto. Ben inteso: il conflitto è buono, è reale, rientra nelle esperienze del mondo. Ma acquista fecondità se è portato a parola, diviene racconto tra gli attori dell’apprendimento, siano essi coppia o gruppo-classe. Prendersi cura della formazione delle persone che l’insegnante ha di fronte implica sempre di più la sua considerazione della loro vita psicologica, e insieme della qualità della sua relazione con loro. Se Lorenzo Milani sosteneva che l’alfabetizzazione religiosa poteva aver luogo solo dopo l’alfabetizzazione tout court, oggi, reinterpretandolo, possiamo affermare che quest’ultima possa accadere in maniera efficace solo affrontando la mancata alfabetizzazione emotiva di ragazze e ragazzi, da un lato, e quella continuamente in-progress dei docenti dall’altro.
Il pedagogista inglese Ken Robinson afferma che la scuola di oggi tende ad anestetizzare, a pretendere e a costruire persone immobili, predisposte a essere riempite da un sapere costituito da microcompetenze utili al futuro «mondo del lavoro». Egli formula questa considerazione partendo dagli impressionanti dati sui farmaci nel sistema educativo primario statunitense, ma così ci suggerisce una lettura valida anche per noi, perché la fenomenologia dell’anestesia è ampia e coinvolge docenti e discenti allo stesso modo. Se siamo esseri la cui essenza è la produzione economica infatti, è necessario non sentire, non percepire, renderci quanto più vicini a una macchina per conoscenze.
Si tratta cioè di tornare a vedere quello dell’insegnante come un mestiere e non un lavoro: più vicino alla continua sperimentazione dell’artigiano, che alla diligente ripetizione di prassi dell’impiegato. Fare della scuola un’esperienza estetica significa riconoscere che in giuoco non è la conoscenza, ma la comprensione del mondo e che essa avviene attraverso l’alleanza di cervello e sentimenti, di calcolo e motivazione, di ragionamento e interesse. Ma per dar spazio al lato emozionale – non sentimentalista, si badi – dell’apprendimento dobbiamo tornare a mettere al centro della scuola la relazione reale tra persone pensanti e senzienti, al di là dello stereotipo e del ruolo, di allenarsi cioè all’imprevisto, alla sconfitta, alla perplessità, senza rinunciare a dare e pretendere lealtà.
Giovanni Realdi
insegnante di storia e filosofia,
componente la redazione di Madrugada