I fratelli Jackson di Lebanon

di Heymat

I fratelli Jackson di Lebanon, nel Missouri, raccontano con entusiasmo da novellini della loro prima volta in Europa, in Danimarca per la precisione. Non una gita di piacere, ma un viaggio di lavoro. I fratelli sono titolari di una microazienda che produce canoe di alluminio e i dettagli folcloristici dell’esperienza danese sono tutti focalizzati sull’obiettivo del volo transoceanico: vendere il proprio prodotto all’estero. Per la prima volta, per sopravvivere, hanno infatti dovuto varcare i sacri confini degli Stati Uniti d’America e cercare un mercato straniero. I giornali americani hanno presentato la cosa come una nuova sconvolgente necessità per le medie e piccole imprese. Uno dei colpi di coda della crisi economica che ha contratto la potenza d’acquisto anche del Paese che sul consumo interno ha fondato un’economia, un’identità, una filosofia di vita, un sogno. L’usa e getta è stato uno dei motori delle vendite, a partire dalla casa. Le abitazioni americane sono spesso di legno, fragili, senza fondamenta. Inutile accanirsi con il cemento in zone in cui tornadi e uragani chiedono ogni anno dazio. Se la casa viene distrutta domani ricostruiremo. Gli Usa bastavano a sé stessi, sia dal punto di vista economico che culturale, tanto erano al centro del mondo.

Oklahoma City è la capitale dell’omonimo Stato del Midwest famoso per le corse alla terra (ovviamente espropriata ai nativi) dei coloni dell’Ottocento e per aver ospitato le tribù indiane dell’est deportate verso ovest dall’avanzata della «civiltà». Oggi i pellerossa rimangono nei musei, negli empori di cianfrusaglie, abiti di perline e ciabatte di pelle rigorosamente original, nei mega cartelloni pubblicitari che lungo la strada annunciano motel, fast food e casinò. Tutti ribattezzati Navajo, Cherokee, Comanche. È qui che un ragazzo alla cassa del negozio di gadget degli Oklahoma City Thunder, la locale squadra di basket Nba, appena saputa la nostra italica provenienza, ci chiede incuriosito che genere di moneta usiamo nel nostro Paese: «Noi abbiamo i dollari, voi invece?». «Gli euro, mai sentito parlare?». «No, interessante». Ci confessa subito dopo di non essere mai uscito dallo Stato in cui è nato. Mi ritornano in mente le parole di un amico canadese, il quale raccontava di come molti americani, sconfinati in Canada superando la frontiera a Nord, pretendessero di pagare tutto con i loro dollari. I commercianti canadesi furono così costretti ad affiggere grandi cartelli: «Qui si accettano solo dollari canadesi». Un’indagine della National Geographic Society di qualche anno fa mostrava come la metà dei giovani americani tra i 18 e i 24 anni non fosse in grado di collocare New York City su una cartina.

La provincia americana, lontanissima (le distanze sono enormi) dal multiculturalismo delle grandi città, non lascia spazio a troppe speranze. Case perfette, con il prato e la macchina parcheggiata accanto, una chiesa evangelica (o più d’una), una torre che regge il serbatoio dell’acqua con il nome della cittadina stampigliato sopra, qualche bar e negozio, un ufficio postale, l’edificio del tribunale per i centri più importanti, un bowling e un cinema o un teatro se va bene, e poi una sfilza di fast food delle più svariate catene. Noi abbiamo solo Mc Donald’s e Burger King, loro molte di più: oltre a quelle specializzate in hamburger c’è quella del cibo cinese, quella messicana, quella che fa pancakes (le frittelle da colazione da irrorare di sciroppo d’acero) e altre. Rifugiarsi la sera in uno di questi posti, per un italiano abituato alla convivialità e alla qualità del pasto, non può che mettere un velo di tristezza. Soprattutto se gli altri avventori sono coppie di vecchietti che si dividono le patatine fritte masticando lentamente il proprio panino.

Non tutti gli americani rimangono inchiodati per tutta la vita alla landa che ha dato loro i natali. Alta rimane infatti la mobilità sociale, che molto spesso fa il paio con quella geografica. Angie è dell’Oklahoma, oggi fa la cameriera in una bocciofila del quartiere italiano di St. Louis nel Missouri, al confine con l’Illinois, ma prima era manager di un negozio di Kansas City, sempre nel Missouri, ma al confine col Kansas. John, di madre olandese e padre messicano, è nato in Texas, ha studiato a Boston, oggi vive in un sobborgo di Los Angeles: è un ingegnere meccanico, la crisi lo ha lasciato senza lavoro così oggi si diverte a fare il tassista, pensando un domani di aprire un ristorante con sua moglie. Justin è nato e cresciuto a Houston, in Texas, ha lavorato per un periodo a Phoenix, in Arizona (lontana dalla sua città qualcosa come 20 ore di macchina) e ora si è stabilito a Oklahoma City. Per molti ragazzi l’università è l’occasione per andarsene di casa: un viaggio che molte volte si può affrontare solo con l’aereo, date le distanze. Per molte coppie di mezza età, invece, la pensione è l’opportunità di vendere tutto e trasferirsi negli Stati baciati dal sole tutto l’anno: Florida e California. Un amico americano mi disse: «La vostra cucina si è mantenuta tradizionale perché voi insistete a riproporre le ricette della mamma. Noi le abbiamo perse per strada».

Noi italiani spesso guardiamo indietro: le radici, la famiglia, la tradizione. Gli americani invece non hanno troppa memoria: uno degli edifici storici più emblematici del Paese, la casa di Philadelphia dove lo scienziato e politico Benjamin Franklin, considerato uno dei padri della nazione, morì nel 1790, è stata distrutta nel corso degli anni senza remore. Oggi non rimane che una sagoma di tubi bianchi di quello che fu l’edificio. Già gli americani guardavano al presente, più che al passato, guidati dalle proprie forze e dalla propria intraprendenza. La crisi economica li ha spinti a guardare fuori dai propri confini, a confrontarsi con l’ignoto mondo esterno. Buon per loro. E noi?