Ospitalità

di Anderlini Gianpaolo, Khalid Rhazzali Mohammed, Siviero Elide

Nella Torà

Nella Bibbia ebraica l’ospitalità affonda le sue radici nel concetto di «stranierità» che caratterizza il rapporto del popolo ebraico con Dio e con la terra d’Israele.

Il popolo della terra, promessa da Dio ai Padri, in quanto ebreo (‘ivrì), ovvero: «colui che oltrepassa, è oltre (la frontiera)», si riconosce senza una terra d’origine e senza un’identità, come è detto: «Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò un popolo grande, forte e numeroso» (Dt 26,5).

Israele è lo straniero/forestiero e lo straniero/forestiero è (come) Israele, come è detto: «Non opprimerai il forestiero, anche voi avete conosciuto il respiro del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Es 23,9). La «stranierità» d’Israele non è un espediente retorico o letterario del linguaggio biblico, è ontologica e, nello stesso tempo, esistenziale. In quanto tale, fonda il rapporto necessario con Dio e con lo straniero/forestiero. Dio ama Israele e ama, anche, il forestiero; e se Dio ama lo straniero, può ordinare a Israele di amare, nella concretezza del vissuto, quel forestiero che è lo specchio d’Israele. Come è detto: «Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite la vostra nuca; perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dei […] rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà il pane e il vestito. Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,16-18).

Questo comando, ripetuto più volte nella Bibbia ebraica, porta a compimento l’altro comando sulla via dell’amore: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). È detto, infatti: «Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Mentre l’amore rivolto al prossimo si pone in un rapporto di vicinanza e di contiguità all’interno del «gruppo», l’amore rivolto allo straniero/forestiero chiama in causa chi non fa parte del gruppo, ma «risiede» a fianco del gruppo, non in un rapporto di alterità identitaria ma nella prospettiva di un’integrazione reale ed effettiva. È detto, infatti: «Vi sarà una sola Torà per il nativo e per il forestiero, che abita in mezzo a voi» (Es 12,49; cfr. Num 15,15).

Il precetto divino che impone l’obbligo di amare il forestiero e la «stranierità» d’Israele, come delineata nella Bibbia ebraica, ci insegnano, insieme, che ci sono due vie lungo le quali si sviluppa il rapporto che lega Israele al forestiero: la via dell’integrazione che giunge fino all’assimilazione (la libera scelta della circoncisione da parte del forestiero) e la via dell’ospitalità accogliente. La prima è rassicurante e chiusa, la seconda impegnativa e aperta; entrambe percorribili sulla base del dettato biblico, anche se è la prima a emergere per garantire quella separatezza che sola può fare di Israele il popolo chiamato alla fedeltà al Dio del Sinài. Ma è la seconda via quella che meglio risponde allo spirito di «stranierità», perché c’è sempre, nel rapporto con Dio e con lo straniero/ forestiero, uno spazio altro o una distanza che non può essere annullata; perché c’è sempre un Egitto in cui ognuno si scopre forestiero e dal quale deve uscire per rivendicare la propria via e la propria libertà. Questo ci insegna che, nel percorso dell’ospitalità, al di là dell’integrazione necessaria, non ci deve essere imposizione alcuna (l’amore, infatti, non impone nulla). Ospitalità è rispetto e attenzione; è la volontà di dare voce a quella alterità irriducibile che chiama alla gratuità e alla libertà, nel nome dei cieli.

Memori dell’Egitto da cui Dio ci ha fatto uscire, dovremmo sempre, al cospetto del forestiero, essere pronti a dire: «Camminiamo insieme fino a dove tu pensi di potere giungere al nostro fianco, sulle orme di Dio. Ma se questo per te è l’Egitto dal quale devi uscire, parti. Noi non saremo per te come Faraone».

Gianpaolo Anderlini, redattore della rivista Qol

Nel Corano

Ibn assabil, letteralmente figlio della via, ovvero il viandante, il viaggiatore, è una figura che ritorna frequentemente nel Corano, tra quelle nei confronti delle quali il testo sacro prescrive l’esercizio della generosità: «Ti chiederanno: «Cosa dobbiamo dare in elemosina?». Di’: «I beni che erogate siano destinati ai genitori, ai parenti, agli orfani, ai poveri e ai viandanti diseredati. E Allah conosce tutto il bene che fate»» (II, 215).

«Le elemosine sono per i bisognosi, per i poveri, per quelli incaricati di raccoglierle, per quelli di cui bisogna conquistarsi i cuori, per il riscatto degli schiavi, per quelli pesantemente indebitati, per [la lotta sul] sentiero di Allah e per il viandante. Decreto di Allah! Allah è saggio, sapiente» (IX, 60).

Come si vede da queste sure [trad. versetti], colui che si presenta, provenendo da fuori, bisognoso d’aiuto, viene omologato ai parenti e agli amici più cari, ed è un passo grave quello di chi, non sentendo l’importanza di questo dovere, manca nei confronti del comando divino.

Cosa avrebbero avuto da rimproverarsi, se avessero creduto in Allah e nell’Ultimo Giorno e fossero stati generosi di quello che Allah aveva loro concesso? Allah ben li conosce (VI, 39).

È questa la traccia che conviene seguire per ricostruire il senso dell’ospitalità nel Corano. D’altra parte, lo stesso Corano si presenta come un dono, che sottolinea e nobilita l’ospitalità offerta a Mohammad dagli abitanti di Medina che, per questo, diventano per eccellenza al-Anssar, gli ospitanti, ma anche i vittoriosi. È infatti a Medina che una parte cospicua del Corano discende dall’alto, un gesto che premia l’accordo dell’umano con il precetto divino, che benedice l’ospitalità. La stessa adorazione di Dio si rispecchia in un atteggiamento che bandisceàla superbia e la violenza ed esercita la misericordia nei confronti dell’altro.

«Adorate Allah e non associateGli alcunché. Siate buoni con i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, i vicini vostri parenti e coloro che vi sono estranei, il compagno che vi sta accanto, il viandante e chi è schiavo in vostro possesso. In verità Allah non ama l’insolente, il vanaglorioso» (IV, 36).

Significativamente, la tradizione ricorda come forme esemplari di ospitalità l’accoglienza offerta dal re etiope di Axum nel 615 d.c. a un gruppo di compagni e parenti di Mohammad fuggiti dai nemici al potere alla Mecca, e più ancora l’accoglienza che Mohammad stesso offre a un gruppo di cristiani yemeniti, ai quali viene permesso di officiare i loro riti nella moschea.

D’altra parte, l’origine stessa del comportamento ospitale e il suo primo modello sono per il testo sacro rappresentati dall’ospitalità di Abramo, scaturigine delle religioni del libro.

«(24) Ti è giunta la storia degli ospiti onorati di Abramo?; (25) Quando entrarono da lui dicendo: «Pace», egli rispose: «Pace, o sconosciuti»; (26) Poi andò discretamente dai suoi e tornò con un vitello grasso; (27) e l’offrì loro… [Disse]: «Non mangiate nulla?»; (28) Ebbe allora paura di loro. Dissero: «Non aver paura». Gli diedero la lieta novella di un figlio sapiente» (LI).

L’ospitalità così caratteristica della cultura araba è, per sua natura, una virtù interculturale. L’annuncio della nascita di Isacco inaugura, con la generosa ospitalità di Abramo nei confronti della straniero, l’apertura a chi arriva da oltre confine, considerata una benedizione.

Mohammed Khalid Rhazzali, sociologo della religione, università di Padova

Nel Nuovo Testamento

Il tema dell’ospitalità è centrale nel Nuovo Testamento. La Buona Novella inizia infatti con un ospite che arriva: Dio stesso che si incarna nel grembo di una donna. Nel testo dell’annunciazione a Maria, Dio chiede alla Vergine ospitalità per suo Figlio: «Ecco concepirai un Figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù… – Eccomi, rispose Maria, sono la serva del Signore…» (Cfr Lc 1, 30-38). Il vangelo di Giovanni esplicita sinteticamente questo avvenimento dicendo: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), dove per il termine «abitare» è usato il verbo greco che significa «piantare le tende», cioè chiedere ospitalità a un gruppo.

Nel momento in cui Cristo Gesù viene come ospite nel mondo, a sua volta è l’ospite che ci ospita. L’ambivalenza che anche in italiano abbiamo per questo termine, che significa sia l’ospitante che l’ospitato, ci racconta la dinamica della visita di Dio. Egli invoca la nostra accoglienza per farci sentire la sua. È quello che avviene con la Samaritana, quando Gesù le chiede dell’acqua (un gesto di ospitalità), per donare l’acqua viva: «Gesù disse alla donna: «Dammi da bere». Le rispose la donna: «Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me che sono una Samaritana?». Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva»» (Gv 4, 7-10).

Tutto il Vangelo ci presenta questo Gesù che visita, che si fa ospitare per raccontare l’accoglienza di Dio, la sua ospitalità per i poveri, i peccatori.

Un incontro emblematico è quello con Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco di beni, ma povero della stima degli altri. Questi è colui che cerca di vedere Gesù, ma non gli riesce perché è piccolo di statura e allora corre, sale su un sicomòro, e si sente raggiungere dallo sguardo ospitante di Gesù che gli chiede: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Il risultato è l’accoglienza di Zaccheo, la sua gioia nel sentirsi visto e visitato, la sua conversione che provoca la mormorazione nella gente.

Se tutta la vita di Cristo è segnata dal suo venire in mezzo a noi, anche dopo la risurrezione Egli non smette di venire a cercarci per chiedere ospitalità, per rinfrancarci nelle nostre speranze deluse: è quello che narra l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24), che invitano lo straniero incontrato lungo la via a fermarsi con loro e scoprono in Lui il Risorto. Da quel momento ogni viandante farà sussultare il cuore del discepolo, perché ognuno potrebbe essere Cristo stesso. Anzi, nel suo discorso escatologico, Gesù Cristo afferma proprio questo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. – Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»» (Mt 25, 3440). Tutte le sfumature dell’ospitalità sono qui presentate non per mostrare una caratteristica del vivere civile, ma per insegnare che negli atti concreti dell’amore vi è l’espressione stessa di una fede che scorge in ogni fratello il divino ospite.

Forse per questo la Lettera agli Ebrei, con un chiaro riferimento all’incontro di Abramo con i tre angeli alle querce di Mambre (cfr Gen 18), raccomanda: «L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13, 1-2).

Elide Siviero, servizio diocesano per il catecumenato, diocesi di Padova