Colpevoli

di Stradi Paola

Maternità sul lavoro

«Ecco la rea.
L’abbiamo presa sul fatto che seppelliva».
Sofocle, Antigone

«Non mi è venuto in mente di contattare né il sindacato, né nessuna associazione di tutela… perché in fondo sono fatta male io… in qualche maniera pensavo fosse colpa mia… forse…».

Guardai B. con rispettoso stupore, cominciò a piangere, le offrii un fazzoletto.

Mi ritrovai a far fatica a gestire il mio impatto emotivo. B. mi aveva spiazzato. Era la prima intervista e, nella valutazione complessiva dei diversi casi presi in esame, avevo pensato potesse essere un colloquio dall’approccio facile: «Sono passati quattro/cinque anni dagli eventi – pensai – posso cominciare con lei».

Ero stata, senza volere, superficiale: le ferite procurate da una situazione che mira direttamente o indirettamente a depotenziare le proprie capacità o addirittura la propria identità – in questo caso di lavoratrice e madre – possono lasciare cicatrici importanti e durature.

Una storia abbastanza semplice: un grande gruppo editoriale, tante promesse di valorizzazione professionale disilluse piuttosto presto, indifferenza alla maternità, scarsa flessibilità di orario, alla fine dei congedi improvviso cambio di umore aziendale, pretesa di rientro dalle ferie e così via…

L’azienda: «…ma dove sei in ferie?… Se vuoi ti veniamo incontro, ti paghiamo il viaggio per rientrare al lavoro…».

Al racconto di B. non riuscii a trattenermi e con foga domandai: «E tu cosa hai risposto?».

«Io gli ho detto: – Ci penso…».

«Tra parentesi – aggiunse – io ero già incinta della seconda, sarei potuta tornare, farmi dare la maternità ma non me la sono sentita, ci avrei rimesso in salute… ho detto finisce qui…».

B. non rientrò dalle ferie; al mare, sostenuta dal marito, pensò di mollare con estrema dignità, rimandando al mittente l’obolo che le si voleva concedere – per compensarla per il disturbo? – del biglietto del treno. Neanche tergiversò. In cuor suo aveva scelto: dimissioni e la sua bimba non aveva ancora un anno.

«…perché in fondo sono fatta male…».

Nei momenti di sosta, dovuti alle lacrime e ai nodi in gola, mi tornavano queste parole ferendomi tremendamente, quasi fossero rivolte a me.

Di fronte avevo una persona che, in qualche maniera, aveva vissuto come colpevolizzante la scelta di astenersi dal lavoro per prendersi cura della figlia e di usufruire del diritto (sacrosanto) dei congedi parentali, nonché del diritto (sacrosanto) di unire a coda dei congedi le ferie non godute da tempo.

Per me, intervistatrice neutra (ma quale punto di osservazione è assolutamente neutro?) è stato come un rimbalzo inaspettato con cui fare i conti. Una volta passata a me la palla, dovevo decidere in quale traiettoria rilanciarla…

Cominciai a dipanare la matassa: se un figlio era indirettamente e sottilmente una colpa – e come tale andava espiata – io che avevo da poco saputo di aspettare un terzo figlio, avrei dovuto espiare una colpa moltiplicato tre. Avvertii il peso di un masso nello stomaco.

Cercai di rinsavire, ma non senza difficoltà, anche perché dall’esperienza di B. emergeva come fosse la società stessa a ribadire e rinforzare questo retro-pensiero (la colpa) espellendo dal mercato del lavoro chi, successivamente a un periodo dedicato alla cura, avesse voglia di rimettersi in gioco.

Così avvenne per lei: dopo la scelta indotta delle dimissioni, decise di dedicarsi qualche anno alla cura dei suoi cuccioli, tenendosi lontana da curricula e ricerche di mercato. Più tardi, superato il periodo totalizzante nella relazione madre-figlio, tentò di essere re-inserita; e qui le sorprese, poiché il mercato del lavoro tradizionale (subordinazione) continuava a risponderle picche mentre i nuovi mercati dei lavori (atipicità) le offrivano de-qualificazione a basso prezzo. Di part-time, poi, neanche a parlarne…

Come dire: «Te la sei voluta». Per un eccesso di cura.

Questo è il momento più critico, quello in cui nessuno più riconosce in te una persona con capacità e competenze articolate, in cui sparisce parte di te, del tuo pregresso speso in studi e lavoro.

Se si supera questa soglia si rischia di entrare in quella stanza buia dove si comincia a pensare… «di essere fatte male, di non essere adeguate e che è forse è meglio non pensarsi come professioniste e che in fondo lo stipendio di una donna è il secondo stipendio che entra in famiglia, che se poi arrivano dei bambini bisogna presidiare più luoghi di lavoro (fuori e dentro casa)» e così a seguire…

Con B. l’intervista si trasformò in uno scambio di considerazioni di ampio respiro; servì a entrambe, credo ne siamo uscite arricchite.

Insieme considerammo come fosse facile sentirsi divise: si contrappone il dovere esterno (lavoro) con il dovere privato (figli, famiglia), fratture nette che sezionano corpi, menti, anime, volontà. Non esiste una comunità educante (sociale/economica/ politica) ma una famiglia mononucleare che si può permettere di educare o di non educare un figlio. La questione si traduce semplicemente nella consistenza del proprio conto in banca. O nel poter avere o non avere a disposizione i nonni che, nella condizione in cui viviamo, rappresentano l’unico baluardo di un welfare sostenibile, per chi se lo può permettere, appunto.

«Saranno splendide ora le tue bimbe, poi così vicine d’età, penso sia un gusto vederle insieme…». Riuscii a strappare a B. un sorriso pieno e solare. Ne fui contenta.

Un saluto, un in bocca al lupo complice e quasi da combattenti.

«Sì – pensai – qui è una guerra e come tale bisogna essere attrezzate…».

La metafora, molto poco femminile, mi pareva la più adeguata.

«Sarà una guerra – dissi di nuovo accarezzandomi il ventre non ancora pronunciato – Sei ancora informe e già devi aiutarmi ad affilare arco e frecce, lo faremo insieme e questo mi darà forza, sai?».

Sentivo di aver iniziato il mio viaggio.

intervista di Paola Stradi pubblicata nel libro Attacco alla maternità A cura di M. Piazza Nuovadimensione, 2009, Portogruaro (Ve).