Corpo e anima: un equilibrio da ristabilire
«Animula vagula blandula,
hospes comesque corporis
quae nunc abibis in loca
pallidula, rigida, nudula,
nec, ut soles, dabis iocos».
Anche per Publio Elio Adriano il corpo non era che un momentaneo compagno di strada dell’anima, il suo accidentale contenitore. La protagonista è lei. Il pensiero dell’imperatore, nel momento estremo che tocca a tutti i corpi, è rivolto infatti alla sua animetta. Il corpo è solo una specificazione. Però senza di esso la bella, deliziosa anima dovrà poi andarsene in posti senza colore, scialbi, inospitali, spogli. Senza il corpo, poi, non avrà più la possibilità di giocare.
Prendi due, resta uno
Una storia molto lunga, e intricata come è giusto che siano tutte le storie praticamente insolubili, quella del rapporto anima e corpo. Che poi diventa quello tra la coscienza (o la mente che altro non sono che la deriva secolarizzata dell’anima) e il corpo. Una storia lunga da Platone ad Aristotele, Tommaso, Cartesio, Locke, Hume, Kant, Hegel… fino ai giorni nostri. Insomma, lunga tanto quanto la civiltà occidentale (per quella orientale è un po’ diverso).
Certo non manca chi, Nietzsche ad esempio, reclama la verità, e la libertà, del corpo (parte prima del suo Zarathustra): «Voglio dire la mia parola agli odiatori del corpo. Essi non devono imparare o insegnare cose differenti da quelle imparate e insegnate fin qui, ma solo dire addio al loro proprio corpo, e diventare così muti per sempre». Poi aggiunge che «vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza».
Ne era ben consapevole pure Freud. Ma l’ha poi detto a chiare lettere Jung: in L’uomo moderno in cerca di un’anima parla della «misteriosa verità che lo spirito è il corpo vivente visto dall’interno e che il corpo è la manifestazione esteriore dello spirito vivente, dato che le due cose sono in realtà una cosa sola». Suggerisce dunque di dare al corpo «quel che gli è dovuto» perché «la fede nel corpo non può tollerare una visione che lo neghi in nome dello spirito».
La totalità da integrare
Negli ultimi decenni la rivalutazione è stata accelerata. I più avveduti hanno capito che tra prospettiva olistica e riduzionistica, la prima ha maggiori possibilità di fornirci delle chiavi di comprensione più affidabili e opportunità di intervento più efficaci. La prima prevede che l’intero – cioè, nel nostro caso, quell’unicum costituito da mente e corpo – è maggiore della somma delle sue parti; la seconda, il riduzionismo di matrice cartesiana, suggerisce che l’intero può essere davvero compreso se si capiscono le sue parti e la natura della loro somma.
La pensano in quest’ultimo modo anche tanti medici: riparato un osso o ammazzato un virus con precisione scientifica, sono convinti di aver risolto «il» problema. Risolto? Facciamo un esempio terra terra: porto un telefonino a riparare perché non funziona; dopo un mese il tecnico me lo restituisce dicendo di aver controllato tutte le sue parti e verificato che ciascuna è a posto. Beh, io che faccio se con quel cellulare continuo a non poter telefonare?
Ecco perché è andata imponendosi quella che Fritjof Capra chiama la visione sistemica della vita: l’organismo umano è una totalità integrata in cui le componenti fisiche e psicologiche sono interdipendenti. Di questa verità devono tener conto la scienza medica e la psicoterapia, perché tutti i disturbi, sia quelli fisici che quelli psicologici, sono sempre disturbi dell’intera persona. Cioè coinvolgono sempre sia il corpo che la mente. Il malanno fisico agisce sull’immagine che si ha di sé, sulle nostre relazioni con l’ambiente naturale e sociale. Ma anche viceversa: il malanno psicologico, il tipo di consapevolezza che abbiamo di noi stessi, la particolare relazione che intratteniamo con il mondo circostante e con il cosmo o addirittura con l’idea di divinità, si ripercuoterà sul nostro organismo fisico. Ormai la psicologia e la psicoanalisi sanno di non poter fare a meno di dialogare e lavorare gomito a gomito con la ricerca scientifica, in particolare con la biologia e soprattutto con le neuroscienze.
Un rapporto complicato
Ma l’essere umano resta una faccenda particolarmente complicata. Ne parla anche Daniel C. Dennett ne L’io della mente: noi diciamo «il mio corpo», «ho un corpo». Se possiedo, dispongo della cosa posseduta.
Infatti, se sono una bella ragazza posso decidere di fare la escort in casa di qualche miliardario, rifarmi il seno per essere più desiderabile, vivere prevalentemente di notte, strapazzarmi e farmi strapazzare, sniffare cocaina: tutte cosette di cui il corpo, senza forse, farebbe volentieri a meno per salvaguardare le sua funzionalità e i suoi equilibri. Oppure uno può (o magari potrà) fare un testamento cosiddetto biologico in cui prescrive ai suoi eredi cosa fare del suo corpo nel caso in cui ne perda il controllo; oppure prevede che, dopo la morte, il suo corpo sia ceduto a un laboratorio di ricerca. Ma così facendo si marca una differenza: se c’è qualcosa di posseduto deve esserci anche un possessore. E chi è? La mente? Che è cosa: il cervello con i suoi neuroni e le sue sinapsi? Ma anche qui, si dice di avere un cervello, non di essere un cervello (a meno che non si voglia farne una metafora). Allora è il corpo che crea la mente, ma questa poi se ne dissocia – la fedifraga – come tutti possono constatare con sé stessi quando si guardano allo specchio e scoprono imperfezioni e i segni del progressivo deterioramento? E come la mettiamo con la scuola dove, per nutrire la mente, i corpi dei ragazzi, puledri che hanno bisogno come dell’aria che respirano di muoversi, sgroppare, agire, sono costretti a inibire la propria vitalità e stare pazientemente seduti, e composti mi raccomando, per lunghe ore di fila?
Il corpo in prima linea
Il corpo, insomma, è una questione difficile. Esso è il palcoscenico dove si rappresenta di tutto: la parte che ci siamo scelti ma anche ciò di cui non siamo consapevoli. Offre al pubblico una nostra storia di cui non abbiamo in tasca i diritti d’autore perché quella storia solo fino a un certo punto è quella che noi avremmo voluto scrivere e presentare. Anche la malattia sceglie il corpo per dichiararsi, al di là delle nostre intenzioni. Il corpo è una terra di confine tra noi e gli altri, tra l’idea che abbiamo di noi stessi e il mondo a noi esterno (e sostanzialmente estraneo). Estensione sottoposta a ogni tipo di inquinamento, sia esterno (con l’aria che respiriamo o l’acqua e gli alimenti che ingurgitiamo e assimiliamo) che interno (i veleni che produciamo da soli ad esempio quando siamo sotto stress), volontario (fumo, droga) o no. Linea di demarcazione, medium sensuale di contatto e di scambio (e che si cerchi di bypassarlo con le chat, i messaggini e ogni comunicazione a distanza in cui esso viene tenuto fuori, apre vicoli ciechi, spalanca pozzi senza fondo, destabilizzanti e disorientanti, in cui esso viene cannibalizzato). Il corpo è il biglietto da visita che porgiamo e che di solito ci preoccupiamo (ah, ecco che ci si mette adesso la mente…!) sia il più possibile omologato e socialmente accettabile. Ma per far questo, in nome di una strategia sociale, capita di sottoporlo a pressioni, di sgualcirlo, segnarlo con pieghe che restano cicatrici, perché esso tutto assorbe.
Per questa strada (ahi, sempre la mente…!) il corpo può diventare brodo di coltura delle nevrosi e delle psicopatologie: l’autolesionismo e le esaltazioni, la chirurgia plastica e il fanatismo per la palestra, per il torace scolpito o la linea come si deve, le erotizzazioni estreme e i cilici, anoressie e bulimie.
Il fatto è che i più considerano il corpo mero strumento, qualcosa di subordinato, di provvisorio (visto che è per la morte), un involucro da manipolare e manomettere secondo le logiche, e le ossessioni, più disparate. Oggi impera quella ispirata al mito dell’eterna giovinezza, con interventi manipolatori a gogò o creazione di propri avatar virtuali.
Il corpo come oggetto da plasmare in vista di un successo dell’apparenza; mezzo a disposizione di una mente non sempre sotto controllo, materia passiva (res extensa, per l’appunto) soggetta ai deliri della res cogitans. Il corpo ridotto a materia gonfiabile e sto pensando a quella strip in cui una spogliarellista, al termine del suo numero, si stappa l’ombelico e tutto ciò che ne resta è un mucchietto di pelle sul palcoscenico. E gli spettatori restano lì – direbbe Massimo Cirri – con lo sguardo della mucca quando passa il treno.
Oppure (sempre i più, o comunque troppi) considerano il corpo un accessorio non così importante o addirittura, come per tante pie persone, potenzialmente pericoloso, da mortificare, a cui negare ogni autoconforto fisico. Ecco allora che, ad esempio, il bisogno anche in un adulto di gratificarsi e rassicurarsi accarezzando il proprio corpo viene generalmente considerato immaturo e condannato come regressivo.
La terapia delle carezze
In L’io diviso, Ronald Laing mette in guardia sulla separazione tra corpo e mente. Dice che una dissociazione nel modo di sentire il proprio essere, cioè la divisione in una parte corporea e una incorporea, diventa patologica quando il corpo viene vissuto «come un oggetto fra i tanti altri oggetti del mondo, invece di essere il centro del vero io». Se il corpo è vissuto come il centro di un «falso io», e visto che esso è la condizione ineludibile per partecipare al mondo che lo circonda, l’io interiore, quello incorporeo, non saprà davvero sentirsi «insieme» con gli altri, si sentirà disperatamente solo e isolato, vivrà sé stesso come una mente e un corpo uniti fra loro da legami incerti, oppure come due o più persone distinte. L’anticamera, appunto, della malattia mentale.
Insomma, vivere sé stessi in dualismo col proprio corpo mette a rischio il ben-essere psicofisico e fornisce molto lavoro ai curatori della psiche. I quali, per far ritrovare l’equilibrio e l’armonia, di fronte a problemi intricati e spesso incomprensibili, ricorrono a una soluzione quanto mai semplice: le carezze (il concetto di «stroke» di Eric Berne), carezze fisiche e psicologiche di cui tutti abbiamo vitale bisogno. E insegnano come procurarsele. Per una strada o per l’altra tutti i «guru» indirizzano (o tornano) sempre lì. Perché è semplice, semplice come lo sono tutte le più elementari verità evangeliche: le carezze basta regalarsele e soprattutto regalarne tante. Perché sono riflessive e più se ne fanno più i benefici tornano anche indietro.
Silvano Mocellin insegnante al liceo, giornalista