L’emersione e la regolazione della cittadinanza attiva
Perché dobbiamo attendere l’emergenza?
La cittadinanza attiva è una regola o è un’eccezione?
La questione si ripropone all’attenzione di tutti, non solo degli interpreti o degli amministratori, ma anche dei comuni cittadini.
Il fatto da cui muovere e su cui concentrare l’attenzione è noto: l’alluvione che ha colpito in modo così forte alcune zone del Veneto.
È altrettanto nota la reazione delle istituzioni rappresentative locali e regionali: a fronte della sottovalutazione mediatica assai diffusa della vicenda, si è levato un coro trasversale di appelli e di istanze rivolte allo Stato e alla possibilità di garantire, in questa come in altre circostanze altrettanto recenti e conosciute (il terremoto a L’Aquila), un intervento forte e profondo del sistema nazionale della protezione civile (con tutto ciò che esso comporta in relazione alla dichiarazione dello stato d’emergenza: non solo aiuti in denaro, per compensare i danni subiti su larga scala dalla popolazione e dalle imprese; ma anche vaste e significative deroghe ai limiti che i poteri di spesa degli enti territoriali conoscono in ragione dell’applicazione severa del patto di stabilità).
Meno nota, invece, è la reazione della cittadinanza o, quanto meno, della parte attiva di essa: non solo all’indomani dell’invasione di acqua e fango, ma anche nell’immediatezza del pericolo e dell’evento, singole persone o gruppi, più o meno organizzati, hanno prestato la propria opera volontaria e si sono messi a disposizione delle collettività aggredite dalla calamità.
Su queste dinamiche di spontanea e positiva, oltre che auspicabile, reazione occorre, quanto meno, riflettere.
Limiti e confini della cittadinanza attiva
Certamente si dirà che non si tratta di azioni risolutive e autosufficienti: la ricchezza di braccia e di fatica, oltre che di tante buone intenzioni, non è sempre e soltanto un fatto capace di sciogliere ogni problema. L’apporto di energie da destinare ai lavori più urgenti (liberazione delle strade e delle case dai detriti e dai lasciti melmosi dell’alluvione; accoglienza e assistenza per gli sfollati) necessita comunque di attività di coordinamento da parte dell’amministrazione locale.
Ma così è effettivamente stato: il Comune di Vicenza, ad esempio, ha distribuito guanti, stivali e badili (forniti, per il caso, dal Comune di Padova) a tutti i volontari, offrendo loro ogni strumento e ogni indicazione utile per supportare l’azione di altre forze parimenti compresenti (esercito; protezione civile). La cittadinanza attiva richiede coordinamento, evidentemente, ma il coordinamento senza la cittadinanza attiva è un’arma spuntata.
Sicuramente si dirà anche che, indipendentemente dall’entusiasmo e dalle emozioni delle prime ore, resta sul tappeto una questione economica di dimensioni notevoli: non si può, naturalmente, pensare che i volontari, più o meno giovani, possano superare le difficoltà finanziarie dovute ai larghi danni subiti e all’esigenza di reperire rapidamente disponibilità utili a consentire sia la continuità della vita quotidiana sia la riattivazione delle tante aziende colpite. La cittadinanza attiva, del resto, dovrebbe muoversi, tendenzialmente, solo nell’ambito della promozione di interessi che hanno dimensione necessariamente puntuale ovvero che non richiedono interventi forti da parte dei pubblici poteri.
Ma non si intende negare tali profili: è innegabile, viceversa, che la cittadinanza attiva costituisce una risorsa sempre attingibile e che il ruolo dei cittadini attivi, singoli o associati, può avere un’importanza anche «strategica» (nel senso tecnico del termine), ossia anche al fine di programmare al meglio le risposte pubbliche disponibili, globalmente intese, in un determinato contesto socio-economico.
Dall’eccezione alla regola
Perché non pensare, dunque, in primo luogo, che l’evento drammatico sia l’occasione per rendere stabili e continuative nel tempo le azioni di supporto, di affiancamento e di perfezionamento progressivo che i cittadini attivi possono svolgere sul piano dell’effettiva realizzazione di politiche pubbliche più ampie?
La risposta (positiva) a tale quesito non può che essere mediata (anche) dalla presa d’atto di alcuni fattori, sia pratici sia teorici.
Si pensi, da un lato, al fatto che, ad esempio, e sempre restando a quanto accaduto a Vicenza, alle operazioni volontarie di pulizia di strade e locali, pubblici e privati, hanno partecipato anche giovani migranti, nell’esplicito intento di sentirsi attivamente e concretamente cittadini di una comunità, al di là del loro status formale e del titolo specifico che ne garantisce la permanenza sul suolo nazionale. Non è forse vero, da questo punto di vista, che la cittadinanza attiva può essere, anche in generale, e non solo in situazioni isolate ed emergenziali, un buon mezzo per le politiche dell’integrazione?
Si pensi, poi, da un’altra prospettiva, come la cittadinanza attiva possa costituire, in qualche modo, un antidoto strutturale e trasversale a uno dei pericoli più forti dell’attuale disciplina della gestione delle emergenze. Difatti sono molte, e anche autorevoli, le voci critiche che hanno evidenziato come quella disciplina finisca per sottrarre, per così dire, «quote» sempre maggiori di democraticità e di libertà in favore del riconoscimento di ampi spazi di potere discrezionale e atipico, oltre che centralizzato. È forse errato ipotizzare che questo potere, che si sviluppa nell’adozione di ordinanze eccezionali e che si pone espressamente in deroga alla normale applicazione di molta e significativa legislazione di settore, debba, allora e preferibilmente, esercitarsi nella chiara, anzi cogente, considerazione delle risorse che i cittadini attivi possono concretamente mettere in campo caso per caso?
Per una normalizzazione democratica dell’eccezione
In altri termini, occorre chiedersi se, al di là della naturale e corretta critica verso la diffusione di simili istituti del tutto straordinari e svincolati da quello che si definisce come il regime giuridico normalmente vigente (e quindi normalmente certo, prevedibile e «controllabile»), non sia opportuno, subito e in ogni caso, invocare la circostanza che l’attivazione di quegli stessi istituti non prescinda dal necessario e sistemico coinvolgimento della società civile, altrimenti privata della possibilità di «interagire» e di «partecipare» nel contesto di un’azione che rischia di essere soltanto autoritativa e che in tal senso rischia di allontanarsi dalle ragioni cooperative e solidaristiche che la motivano e che la legittimano.
Come spiegare, altrimenti, il perdurante disagio della popolazione abruzzese? Come spiegare, diversamente, la paradossale contraddizione tra la forma puntuale e rapida di un’azione pubblica centralizzata e apparentemente efficiente e il senso di smarrimento e di «esclusione» che i destinatari e «beneficiari» di quella stessa azione sentono di rappresentare pubblicamente?
Se è vero che il sistema delle ordinanze derogatorie e degli interventi straordinari costituisce un vulnus nel contesto degli equilibri del nostro stato di diritto; se è vero, al contempo, che esso finisce per introdurre uno stato d’eccezione che si autoalimenta e che «espelle» dallo spazio dei propri risultati proprio i diritti e le libertà dei soggetti che in esso dovrebbero «ri-attivarsi»; allora non v’è che un’unica conclusione: l’esercizio cieco del regime d’eccezione non si fonda su presupposti legittimi, in quanto radicalmente contrastante non solo, formalmente, con l’assetto costituzionale dei poteri e delle competenze, ma anche con i principi di autonomia individuale e di libertà che quell’assetto vorrebbe tutelare in radice e che la cittadinanza attiva vuole preservare sempre e comunque, anche in casi d’emergenza.
A questo punto, occorre, in verità, chiedersi, se la cittadinanza attiva, lungi dall’essere la regola che l’eccezione dovrebbe comunque seguire, non possa davvero imporsi, così come del resto la Costituzione vorrebbe (art. 118, comma 4), quale principio che connota l’ordinarietà dei casi e che, testualmente, non soffre limitazioni applicative neanche nei casi d’emergenza, in quanto unico e vero modus operandi sempre vivente per qualsivoglia autorità territoriale.