Rinascimento e Risorgimento
L’identità «mutilata» dell’Italia unita
«Come fu possibile il Rinascimento?
fu possibile perché la nuova vita vissuta
nell’Italia settentrionale nel corso del
quindicesimo secolo nasceva dalla
riscoperta della psiche immaginale».
James Hillman, Re-visione della psicologia, 1975
«Avevamo un neoguelfismo, il Medio Evo
si drizzava minaccioso e vendicativo
contro tutto il Rinascimento».
Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 1871
Quando ci si voglia confrontare, senza preclusioni ideologiche, con gli aspetti più imbarazzanti della civiltà e della cultura italiana del nostro tempo, bisognerebbe sempre ricordarci che cosa eravamo, quali livelli di libertà immaginativa e di apertura a straordinari orizzonti di senso sono stati realizzati dalla cultura rinascimentale. Se tutti quei semi, se quelle feconde suggestioni, se quelle vertiginose aperture sono state violentemente dissipate, una visione storica di come ciò sia potuto accadere si rende sempre più necessaria.
L’Italia del rinascimento
L’antropologia articolatasi nell’Italia del Rinascimento sembra ruotare tutta attorno alla metafora della «centralità» della psiche nell’universo. Nel linguaggio simbolico, rimesso in circolazione dalla filosofia neoplatonica dell’Accademia medicea fiorentina, la metafora si traduce nel troppo spesso frainteso (in senso letterale e «umanistico») motivo ermetico della «centralità ontologica» del microcosmo, come lo declina Giovanni Pico della Mirandola nella sua orazione De hominis dignitate (1486).
La metafora immaginale della centralità dell’uomo-microcosmo è piuttosto una conseguenza della matrice «indefinita», «aperta», «fluida», «policentrica», «proteiforme» della soggettività umana.
Come scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari in Che cos’è la filosofia? (1991), la filosofia del Rinascimento fu, anche sotto i profili storico e politico, un «pensiero ineguagliabile». Pensiero che, tuttavia, si trovò costretto ad abortire sul territorio geo-teologico che lo tenne storicamente a battesimo. In Italia lo spirito della Controriforma imperversava e rendeva del tutto impossibile la pratica di un’immaginazione attiva, che liberasse il pensiero teologico dal riferimento esclusivo all’immaginario cattolico.
Il trasformismo
Alla lettera, nella prima metà del XIX secolo in Italia è risorto soltanto ciò che era ridotto, appunto, alla macabra condizione di un cadavere. Per dirla con Ignazio de Loyola, Perinde ac cadaver: obbediente come un cadavere. Questa è quell’Italietta che aveva già da tempo offerto in olocausto, sull’altare del ritorno all’ordine confessionale, ogni slancio di effettiva riforma religiosa e di rinascita della sua dignità simbolica.
La progressiva rimozione della matrice immaginale dell’uomo-microcosmo fu operata sulla base della recezione controriformistica di alcune metafore politico-antropologiche di Machiavelli. Basti pensare alla tesi, ampiamente argomentata nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (iii, 9, 17), relativa all’insuperabile immutabilità della natura umana: «E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l’una, che noi non ci possiamo opporre a quello che c’inclina la natura; l’altra che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti; donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi ed elli non varia i modi».
Questa ulteriore metamorfosi, a partire dal XIX secolo, evolverà nella prassi politica del trasformismo (L. Musella). Tra le tendenze trasformistiche spicca un’ossessione che sembra essersi impossessata in modo permanente delle classi dirigenti italiane, da Cavour ad Andreotti e oltre, passando per Giolitti e Mussolini: far convergere, volenti o nolenti, verso il centro tutte le forze moderate e conservatrici disseminate negli schieramenti politici di segno opposto.
Dal cattolicesimo risorgimentale al concordato
Ponendosi come erede diretto del machiavellismo gesuitico (B. Spaventa), il pensiero cattolico-moderato risorgimentale non riuscirà più a immaginare una progettualità politica fondata sull’orizzonte ontologico e teologico del possibile, ma finirà per aggrapparsi cinicamente all’amministrazione dell’esistente: «La medesima discrezione si dee recare nelle dottrine, specialmente politiche; calcolando il probabile, non dal possibile, ma dall’effettivo, e misurando le speranze, non dai desideri, ma dall’indole dei tempi, delle cose e degli uomini» (V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani (1843), in Opere di Vincenzo Gioberti, Bonamici & C., Losanna, 1845, vol. I, t. i, p. 369; il corsivo è nostro).
In queste accorate raccomandazioni di Vincenzo Gioberti ben si compendia l’indole di una delle componenti basilari del machiavellismo politico che ha animato il Risorgimento nazionale. Ciò è anche espressione di una radicale rimozione dal discorso teologico dell’orizzonte del possibile, almeno nella misura in cui la sfera del possibile – un’etica e persino una politica del possibile – sarebbe traccia di un atteggiamento di postura conoscitiva e di un’operatività politica che si impegnano a immaginare attivamente un mondo possibile, «altro». Posizioni che sanno fin troppo bene come un mondo possibile debba prima essere immaginato, per potersi annunciare nell’esperienza.
Emblematico del processo di esponenziale marginalizzazione culturale, politica, ideologica da cui si è generata quell’identità culturale e politica che si prolunga ancora fino ai giorni nostri, è il ritorno o, per meglio dire, la restaurazione risorgimentale dell’identità confessionale intesa come unica possibile bandiera culturale praticabile dallo Stato nazionale, appena unificato. Sempre che lo Stato nazionale uscito dai moti risorgimentali si potesse definire a tutti gli effetti unificato. Se, proprio al contrario, non si sono con ciò gettate le fondamenta di quel lento (ma neanche più di tanto, a ben vedere) processo storico-diplomatico che, nel corso del secolo successivo, avrebbe condotto alla definitiva stipula del Concordato politico tra lo Stato fascista e la Chiesa romana. Evento questo che avrebbe definitivamente sancito e fondato, sul piano istituzionale, quell’identità scissa, ancora oggi peculiare del nostro paese. Caso limite e forse persino unico nel mondo civile, come si è lucidamente accorto Antonio Gramsci: «Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale».
Gramsci è stato uno smaliziato interprete della tendenza tipicamente risorgimentale alla nazionalizzazione delle alte gerarchie ecclesiastiche, dai cardinali agli stessi pontefici. Processo che, a suo dire, andrebbe annoverato tra le conseguenze più nefaste e perniciose prodotte dall’intero decorso ideologico del Risorgimento nazionale. Secondo Gramsci, fu questa l’epoca in cui la Chiesa romana, sentendosi sempre più accerchiata dai frenetici processi di secolarizzazione della società civile (capitalismo, liberalismo, democrazia, socialismo…) e di apostasia di massa in atto nelle nazioni europee dotate delle borghesie più avanzate del tempo, si sarebbe, per così dire, messa sulla difensiva, «italianizzando» a oltranza i propri quadri dirigenti, con ciò paradossalmente svilendo l’effettiva cattolicità della sua missione pastorale.
L’altra modernità italiana
A margine delle posizioni confessionali ideologicamente schierate su posizioni più retrive, per restare su un fronte più moderato e «ragionevole», anche il fior fiore del cattolicesimo liberale ha fatto la sua parte. Basti riflettere sulla compagine antropologica che viene per l’occasione riesumata (non troviamo un’altra immagine) nell’operazione teo-ideologica di Antonio Rosmini. La condizione di una soggettività deprivata, relegata all’estrema periferia di quello che il teologo di Rovereto definisce un po’ retoricamente come il «gran mare dell’essere»: «Si ricordi il mortale che egli non è nel centro del gran mare dell’essere, ma in un angolo, e che solo da quest’angolo egli dirige il suo sguardo alle cose, e non dal centro» (A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830), a cura di G. Messina, Preliminare alle opere ideologiche, ç 29, in Opere, vol. iii, Città Nuova, Roma, 2003, p. 84).
L’attuale evanescenza culturale e l’imbarazzante marginalità antropologica dell’uomo cattolico nel mondo contemporaneo, come non smettono di ricordarci Gilles Deleuze e Félix Guattari, sono soltanto alcuni dei più pesanti retaggi della sua preliminare sottomissione alla cosiddetta «verità oggettiva dell’essere». Su di essa si fonda ancora oggi, senza alcun pubblico ritegno, la posizione istituzionale degli attuali epigoni del cattolicesimo liberale.
In sostanza, l’ossessione politica per il «centro», che ancora oggi domina più o meno consapevolmente una certa politica nazionale moderata del tutto trans-ideologica, si pone come l’erede di un processo storico-teologico che culmina nel tentativo di disfarsi una volta per tutte delle radici dell’«altra modernità» italiana. Modernità che si è annunciata all’Occidente nell’antropologia fluida e policentrica dell’ermetismo rinascimentale.
Tentativo che, innegabilmente, sembra almeno in parte riuscito. La sfida per il futuro, la capacità effettiva della realtà territoriale italiana di relazionarsi, senza soccombere miseramente, con il mutato scenario globale, si gioca – anch’essa almeno in parte – in base alla capacità della politica di immaginare un nuovo mondo possibile.