Trasformazione senza progresso
Alcune note sull’identità italiana contemporanea
La morte della patria
Lo scopo di questo articolo è esclusivamente descrittivo: quello che mi interessa, infatti, è mettere in luce alcuni mutamenti del discorso pubblico attraverso il quale il nostro paese si costruisce e si legittima come «comunità immaginata», nella quale trovano la propria unità – sempre precaria e di carattere simbolico – attori pubblici e privati, dominanti e dominati. A questo scopo, mi sembra utile richiamare brevemente l’ampio dibattito storiografico che si è svolto in Italia, nel corso degli anni novanta, sulla questione del «disfacimento nazionale».
Questa posizione, di carattere revisionista, è stata avanzata originariamente da Renzo De Felice e successivamente abbracciata da Ernesto Galli della Loggia, che, in un certo senso, ne offre una presentazione esemplare nel suo La morte della patria. In sé la tesi di fondo è assai semplice e si regge su due assunti fondamentali.
In primo luogo, si appoggia sulla drastica limitazione del significato dell’esperienza resistenziale durante la seconda guerra mondiale. Quest’ultima, infatti, non solo interessa una parte limitata del paese – il nord dell’Italia – ma riguarda esclusivamente una minoranza della popolazione, impegnata in una lotta contro un’altra minoranza: quella degli italiani che avevano abbracciato la Repubblica di Salò. In mezzo, tutti gli altri, una maggioranza passiva e politicamente silenziosa, attenta esclusivamente alla propria salvezza personale e in attesa della conclusione del conflitto.
In secondo luogo, la riduzione del significato storico della Resistenza rende possibile una reinterpretazione complessiva della storia repubblicana successiva. Una volta derubricata la lotta antifascista a episodio secondario della seconda guerra mondiale e della guerra di liberazione dell’Italia, il 25 aprile, come momento apicale della storia italiana novecentesca, perde il proprio senso. La Repubblica, infatti, non è più considerata il risultato di un movimento di liberazione in cui entrarono le energie più innovative espresse dall’Italia in quel periodo. Il momento fondante, invece, della storia repubblicana è riportato indietro di due anni e diventa l’8 settembre del 1943. In quella data, infatti, si consuma il disfacimento definitivo dello Stato italiano e del suo tentativo di costruire un’identità nazionale per via politica.
Da questo punto di vista, il 25 aprile, insieme alla costituzione democratica del 1948, appare non il risultato della vittoria delle forze antifasciste, ma il frutto tardivo del disfacimento del paese.
Una nazione in ostaggio di ideologie estranee
La successiva storia della repubblica si costruisce, di conseguenza, sulle ceneri della nazione italiana, che appare in ostaggio di ideologie che le sono estranee – l’antifascismo e il comunismo -, della contrapposizione tra USA e URSS che produce come effetto, nel nostro paese, un regime partitico bloccato – DC perennemente al governo e PCI sempre all’opposizione – in grado di produrre corruzione a ogni livello sociale.
L’esito di una simile interpretazione della storia italiana è del tutto conseguente: la costituzione repubblicana del dopoguerra, il sistema dei partiti così come ci è consegnato dalla conclusione della seconda guerra mondiale, appaiono una sorta di enorme parentesi nella storia nazionale. Una volta che essa sia chiusa, potrà ricominciare la storia che si è interrotta l’8 settembre – e vale la pena notare che una simile prospettiva è analoga a quella adottata da Croce per interpretare il fascismo, come «calata degli Iksos» che interrompe dall’esterno lo sviluppo liberale del paese.
Va notato che le interpretazioni revisioniste si impongono e suscitano una vivace controversia tra gli storici di professione, in stretta successione rispetto al crollo del blocco sovietico e alla stagione di «mani pulite»: si tratta di eventi che, indubbiamente, segnano una profonda discontinuità rispetto ai precedenti assetti repubblicani, con la cancellazione di fatto del preesistente sistema partitico – almeno nei suoi esponenti di punta – e un profondo rimodellamento delle classi dirigenti politiche del paese.
La costituzione repubblicana è invecchiata?
Rispetto a questa serie di mutamenti che culminano sostanzialmente con la crisi economica del 1993 e l’inizio della stagione politica del berlusconismo, un simile dibattito non sembra altro che un rarefatto riflesso della fine degli equilibri repubblicani e della centralità – almeno nella retorica ufficiale – della Costituzione e della Repubblica. Più che discutere della validità dell’interpretazione della storia italiana che viene proposta, mi sembra interessante considerare, da un altro punto di vista, gli interrogativi che essa suscita: la Costituzione repubblicana è davvero invecchiata e inattuale? Qual è il discorso di legittimazione, che viene proposto pubblicamente, per fondare una identità italiana all’epoca della cosiddetta «seconda repubblica»?
Riguardo la prima questione, credo si possa certamente sostenere che la Costituzione, e la stagione resistenziale da cui è scaturita, sono, di fatto, inattuali. Naturalmente, il mio non è un giudizio di valore, ma una constatazione del nuovo posizionamento strategico degli attori politici, così come si è definito dopo la crisi di Mani Pulite.
Si pensi, in proposito, alle dichiarazioni di Luciano Violante, nel 1996, al momento del suo insediamento come Presidente della Camera, sulla necessità di capire le ragioni dei repubblichini – senza però alcuna condanna politica di Salò – o la loro ambigua riabilitazione – in fondo, anch’essi combattevano per l’unità d’Italia – proposta da Ciampi nel discorso tenuto il 14 ottobre 2001, durante una cerimonia di commemorazione della Resistenza. Quest’ultimo, peraltro, con l’appello all’unità d’Italia perseguiva istituzionalmente una politica culturale assai precisa: sostituire, come discorso di legittimazione della nuova Italia senza DC, PCI e PSI, quello risorgimentale a quello resistenziale. Insomma, abbiamo a che fare con una serie di segnali – che non si riducono, ovviamente, alle posizioni espresse da due delle massime cariche statali – che indicano un’evidente fatica, da parte del nuovo panorama politico, a convivere con la Resistenza e la Costituzione, più o meno concepita come una costola della prima.
Del resto, questo fenomeno è particolarmente evidente, se si considera la traiettoria politica del PDS-DS-PD che mi sembra, a suo modo, esemplare. Si tratta di una formazione segnata soprattutto dagli effetti della dissoluzione del PCI, avvenuta, in Italia, praticamente in tempo reale rispetto al crollo del muro di Berlino. Il nuovo partito, che nasce dalle ceneri ideologiche del togliattismo, si costituisce, fin dalle origini, attorno alla questione del riformismo procedurale, che trova la sua espressione più alta nella bicamerale D’Alema del 1997.
Anche se il tentativo di riforma si concentra sulla seconda parte della Costituzione, se si somma l’attivismo istituzionale di D’Alema alle dichiarazioni di Violante, il risultato è abbastanza chiaro: ciò che va superato è la vecchia Costituzione, con i suoi meccanismi istituzionali e il suo discorso di legittimazione. In un certo senso, si tratta ancora del vecchio togliattismo, ma di segno inverso: dall’enfasi sulla democrazia sostanziale a quella sulla democrazia formale, dalle riforme sociali all’ingegneria istituzionale, dalla preoccupazione per la sostanza sociale all’estasi per le questioni di metodo. Come si capisce senza difficoltà, l’idea di costruire un partito la cui unica ideologia è una sorta di preceduralismo freddo – il partito delle regole o, in variante locale, della buona amministrazione – se permette di bruciare i ponti con il passato – comunismo, resistenza, costituzione – non presenta, però, particolare appeal nel mercato dei voti, come ampiamente dimostrato dal poco brillante cursus honorum del PDS-DS-PD in termini di consensi elettorali.
Il socialismo degli imbecilli
La questione che si pone, dunque, è quella di cercare un nuovo discorso di fondazione dell’identità di partito, da proporre al paese.
Qui incontriamo il secondo tratto di discontinuità tra la situazione attuale e quella dell’immediato dopoguerra. Uno degli elementi centrali della Costituzione, infatti, è rappresentato dal conflitto tra capitale e lavoro, inscritto, in un certo senso, nel suo primo articolo. In realtà, di un simile conflitto non resta praticamente traccia: non, ovviamente, nell’ordine reale, ma in quello simbolico, sostituito dalla centralità dell’impresa e del mercato. Esso viene sostituito, invece, da una logica di ripartizione delle identità che colloca al proprio centro la presenza, sul territorio nazionale, di cittadini immigrati. L’immigrazione, articolata attraverso un discorso pubblico che coniuga allarme criminalità, allarme terrorismo e risposta di sicurezza, diventa la risorsa strategica per costruire il nuovo discorso di legittimazione degli attuali attori politici e per tentare di rifondare, su un presupposto differente, la malandata identità nazionale.
Da questo punto di vista, il revival risorgimentale inaugurato da Ciampi e proseguito da Napolitano assume una consistenza differente: si tratta di costruire una italianità immaginaria che si definisce non per la sua capacità di affermazione – il Risorgimento, infatti, da qualunque lato lo si guardi è una storia minore – ma per la sua capacità di esclusione, nutrita di un fondo razzista neppure tanto larvato. Insomma, se dovessimo sintetizzare i mutamenti dell’identità politica italiana, mi sembrano due i punti da tenere fermi: l’abbandono del vecchio linguaggio della resistenza e del conflitto di classe e l’affermarsi di un’ideologia fondata sulla discriminazione dello straniero, il cui razzismo è a mala pena celato dal suo involucro sicuritario. Da un certo punto di vista, ci troviamo davanti alla parodia degli ideali emancipativi del novecento: il razzismo, infatti, come l’antisemitismo, è il «socialismo degli imbecilli».
Walter Baroni
assegnista di ricerca alla facoltà di sociologia,
università degli studi Milano-Bicocca