Rimettere al mondo il mondo

di Realdi Giovanni

Una sfida tra natura e cultura

Poco meno degli angeli

Osservo da vicinissimo – un privilegio – le mani di Elena. Sessanta giorni fa l’infermiera me l’ha consegnata in un fagotto da cui spuntava solo il viso, la bocca piena del liquido in cui nuotava fino a una mezz’ora prima. Col primo bagnetto ho visto i piedi e le mani. Nelle ore di attesa del sonno profondo, quello che poi si concede anche ai genitori, guardo queste mani, seguo le loro linee, le unghie ancora tenere e riempio gli occhi di un’assoluta perfezione. Se il corpo attende di prender forma lentamente, con l’alimento giorno dopo giorno, le mani pur in scala sono proprio quelle che porterà con sé per sempre.

Come si dice: la natura ha costruito questo essere strabiliante. O è stato Dio Padre? O è l’ultima conseguenza di un moto casuale della materia, un tenero frutto del caos? E se fosse il Grande Cocomero schulziano?

Il fatto è che la natura non è per niente naturale. Pensiamo alla gravidanza: quella della vicina è sempre la più nera. Nausea, emorroidi, voglie di cibi mai visti nel nostro emisfero… Poi nella peggiore: valori del fegato sballati, diabete, arresto della crescita, placenta che non va. Finale: taglio cesareo. La creatura che arriva è un alieno. Un pedagogo l’ha paragonata a una divinità: nella sua totale tensione ricettiva capisce tutto, ma nessuno capisce nulla di lei. Bene: è nata, ora deve mangiare. Pensate che il capezzolo sia di per sé compatibile con la boccuccia agognante? Per nulla. Son nuovi dolori e tentativi e settimane di domande metafisiche: si nutre abbastanza? Facciamo il conto: ruttino, pannolino, poppatina. E allora perché piange? Ma certo, ha sonno! E perché non chiude gli occhi e basta? Troppo facile, naturalmente.

Volontà di vivere

Che cosa c’è in tutto questo di naturale? Scorgo lo sguardo accigliato del realista schopenaueriano: della natura fa parte essenziale il dolore. Infatti nella fase di esplosione del corpo, quando le cellule si dimenano per centuplicarsi, intessendo miliardi di connessioni ormonali nel fisico e nel cervello – l’età scolare – è naturale che si chieda a questi esserini di rimanere quattro cinque sei ore seduti in classe? Seduti e zitti se possibile. Se dobbiamo soffrire, impariamolo da ragazzini.

È naturale che un’interpretazione di un credo religioso imponga alla donna di vestire un abito che la veli integralmente? È naturale – ce n’è per tutti – che sulle pareti di una casa, di una classe, di un tribunale o ufficio pubblico venga esibita la miniatura di un uomo appeso a uno strumento di tortura e di morte, una croce? Provocazione: e se al muro fosse appesa una piccola sedia elettrica di plastica da due soldi con relativo condannato a morte?

È naturale lavarsi i denti? E se è naturale un alveare, perché un grattacielo non lo è? Se lo è un fiore, non lo sono i girasoli di Van Gogh? Se lo è per un uomo innamorarsi di una donna, non lo è il desiderio di trascorrere la vita con una persona del nostro sesso? Piano, dove corri! Non mi dirai che consideri naturale il disgraziato atto del pedofilo, dello stupratore, dell’invertito! Ecco dove porta il relativismo morale: o tempora o mores!

Per fare un albero ci vuole il legno

E per fare la caserma dei pompieri ci vuole il Lego. Il fatto è che un albero non sa di essere un albero, né un cane lo sa, né una scolopendra. E nell’ultimo caso è proprio una fortuna.

La natura in altri termini non esiste. C’è uno sguardo umano che, come Adamo su invito del Creatore, dà i nomi alle cose, mentre Egli osserva placido e annuisce. La Genesi contiene un’indicazione preziosa: è l’uomo a definire i contorni delle cose, a deciderne le definizioni, le caratteristiche essenziali che fanno di esse quel che sono. Mi si obietterà che l’uomo, lo chiami «sole» o meno, non potrà sovvertire l’andamento astrale. Ma il punto è proprio questo: esiste un movimento celeste, e ogni possibile regolarità nelle cose, proprio perché è l’uomo a coglierla.

«Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me»: l’adagio di Kant ci fornisce un’altra indicazione. La possibilità di nominare le cose non è un’operazione decisa una volta per tutte all’origine del mondo: il racconto simbolico della Genesi può esser visto come un processo continuo, ancora in atto. Quasi che l’attenzione non debba cadere sul nome concordato, convenzionale, ma sull’azione del darlo, che responsabilizza l’uomo. Il semplice fatto che veniamo a un mondo già fitto di nomi non toglie la necessità che ognuno ha di prendere atto di essi. Uno sforzo superfluo? Non possiamo godere di quanto la storia ci fa precipitare attorno? Ridare nome alle cose è la salvaguardia della nostra autonomia: lasciare che altri lo diano, invocando presunte prelazioni naturali, può essere forse innocuo per gli oggetti quotidiani (casa, scuola, fucile), ma diventa un’insidia sul piano dell’astratto (diritto, libertà d’istruzione, guerra o pace). Questi ultimi sono i nomi che vanno sempre e di continuo contrattati, e anche a questo è ordinata la democrazia partecipativa.

Dare alla luce

L’atto con cui riprendo il nome è un’illuminazione, e non a caso si parla della luce dell’intelletto o del lume della ragione. Allora, se illumino «natura», che cosa è naturale? Una direzione ci viene proprio dall’atto necessario che precede ogni parola, la nascita. Per parlare devo essere nato, per formulare concetti devo esser stato concepito, cioè pensato, prima ancora che lo spermatozoo più forte arrivi all’ovulo in attesa. Esiste nel linguaggio questa potente correlazione tra concetto e concepimento. Come sto guardando – come sto pensando – allora al piccolo embrione che prende forma? Quale natura la mia cultura desidera per lui, per lei? Fin dove posso deciderla come concepente?

L’istinto precede il concetto: posso chiamarlo bisogno, desiderio, tendenza attualizzante, conatus… Il fatto è che prima di poter formulare per lei la parola più adatta, la creatura già piange e invoca presenza. Questa è forse natura allo stato puro, ma non ha nome.

Qui si gioca la battaglia decisiva tra natura e cultura: se pretendo di sapere sempre quel di cui hai bisogno, darò inizio a un inesorabile processo in cui la tua natura avrà nomi decisi da me. Un concetto difficile? Passata la primissima fase, quanto tempo deve trascorrere prima che mi abbandoni a espressioni del tipo «i bimbi bravi non piangono», o «non è il momento di fare i capricci»? Il nostro linguaggio di genitori ed educatori costruisce nei bambini una seconda natura, un insieme di doveri ai quali, pur di avere il nostro bene, i piccoli si adegueranno. E la chiameremo natura.

Il vagito, o l’urlo, infantile contiene un miracolo: è l’esperienza organismica, l’unico momento della nostra esistenza in cui percepiamo un bisogno e lo proponiamo al mondo così com’è, senza filtri. Subito dopo l’invadente azione delle istituzioni costruisce il setaccio attraverso cui far passare quel che è opportuno e trattenere quel che è scomodo per gli adulti, i grandi, quelli che hanno il potere di decidere. Non parlo di lasciar piangere, o di soddisfare sempre ogni desiderio: non è qui il punto. Si tratta invece di chiedere a sé stessi, come genitori, insegnanti, preti, politici quanto tempo siamo disposti a dare all’ascolto prima di snocciolare la soluzione del problema, quella che per noi, ma solo per noi, è naturale. La natura non sta all’origine, al contrario è il risultato di una desiderata operazione di incontro.