Il paradigma della persona e la lezione di Emmanuel Mounier

di Sorrentino Sergio

Oggi la consapevolezza di una crisi profonda ed estesa della società e dei destini dei singoli è diventata quasi percezione comune. Capita quindi sovente di interrogarsi sulle ragioni e sui fattori di questa caduta nella barbarie di cui si avvertono segni vistosi nella nostra vita sociale. Tale barbarie per certi versi sembra caratterizzare il passaggio dal nostro universo di provenienza al presente del postmoderno.

Un nuovo tipo umano (barbaro, superficiale)

La provenienza da cui veniamo è la modernità, con le sue promesse di «magnifiche sorti e progressive»; esse, secondo taluni, sarebbero fallite, aprendo il varco alle istanze del presente. Viceversa il presente (il postmoderno) annuncia la gestazione di un tipo umano nuovo e radicalmente alieno rispetto a quello perseguito e idealizzato dell’Illuminismo. E in quanto alieno, esso è appunto barbaro, perché tra l’altro il suo linguaggio è incomprensibile per l’uomo della modernità. Insomma, in questo passaggio di epoca sarebbe implicato il trapasso da un tipo umano istituito sull’asse di una profondità della vita e delle sue istanze capitali a un tipo umano che trova il suo assetto nella superficialità delle singolarità senza legami e nella fruizione dispersiva e nomade di ciò che il presente offre, senza conti né col passato né col futuro.

Ora si può dubitare che una simile diagnosi colga nel segno di una crisi come quella che attraversa il nostro presente. In essa si sovrappongono come due ondate di una difficile trasformazione. Una è la consueta gestazione del passaggio intergenerazionale, che quando si accompagna a rivoluzioni tecnologiche sembra mettere in forse l’assetto di un mondo e richiedere il suo rivolgimento. L’altra investe, invece, i fondamenti stessi di un’intera civiltà e tocca non tanto formazioni ideologiche o assetti linguistici consolidati, bensì il paradigma stesso del senso dell’umano e dell’universo di simboli e istituzioni che lo sorreggono. In questo caso la crisi non è meramente congiunturale, come nel caso del passaggio tra generazioni e/o del mutamento di linguaggio, bensì è strutturale, perché tocca il paradigma di senso che comanda e struttura una civiltà e l’universo di vita che in essa viene plasmato.

Una diagnosi istruttiva e fertile

È nell’analisi di questo secondo livello di crisi, che pure interessa il nostro presente e il futuro delle nostre società, che la diagnosi a suo tempo condotta da Emmanuel Mounier può essere istruttiva e fertile di prospettive.

Il pensatore francese si muove dentro una consapevolezza: la crisi che il mondo attraversa in maniera ciclica è una crisi profonda del senso che gli umani hanno cercato di costruire nel mondo da loro abitato. Quel senso si è istituito e sedimentato in un paradigma che non riesce mai ad adeguare la scaturigine stessa del senso umano della vita e dell’esistenza, è sempre in ritardo sulle sue esigenze essenziali. È come se le promesse e il progetto racchiusi in quel paradigma, quasi come la riserva formativa di un mondo a misura dei bisogni e degli interessi dei singoli individui e delle loro aggregazioni sociali, non riuscissero mai a giungere a realizzazione e questo obiettivo venisse sempre mancato.

Di qui il fallimento vistoso degli assetti politici, delle costruzioni ideologiche (liberalismo, socialismo, democrazia), delle stesse formazioni prodotte dalle scienze e dalle tecnologie; rispetto a queste ultime, l’essere umano sembra cadere nelle strettoie della marginalità riduzionistica e dell’assoggettamento strumentale (ovvero funzionale). È come se in quel paradigma l’umano posto al vertice, o meglio al centro, come il fiore di una civiltà, si trovasse poi sempre succube di una logica strumentale; essa lo riduce al rango di una pedina della razionalità strategica, e la sua dignità è come se fosse sempre affetta da un deficit insanabile. E se, invece di pensare l’umano, quale fulcro di una civilizzazione ossia di un mondo da costruire intorno a un paradigma di senso, in termini di mera individualità isolata e irrelata (liberalismo) oppure di sostanziale aggregato sociale (la classe, secondo l’idea propagata dai socialismi), lo pensassimo come persona? Allora, certo, avremmo un mutamento profondo e radicale del paradigma di senso che sorregge il nostro universo di vita e di aggregazione; saremmo allora in grado di progettare un altro mondo, un’altra società, un altro futuro che possa essere all’altezza della persona umana e della sua dignità più propria, che è refrattaria alla subordinazione strumentale e alla atomizzazione sociale.

Una sorta di nuovo illuminismo

Sta qui il nocciolo della proposta teorica e pratica elaborata da Mounier nel lungo travaglio che lo ha visto impegnato ad affrontare una crisi profonda e irreversibile della civiltà (occidentale, beninteso) e a individuare l’architrave sul quale erigere un mondo umano altro. Un mondo, cioè, capace di mantenere le promesse di realizzazione che competono al progetto del personalismo e di ovviare ai fallimenti attestati dalla storia umana. È questo un personalismo che si presenta come una sorta di nuovo illuminismo, che non lascia cadere le acquisizioni dell’Illuminismo storico, anzi se ne avvale in maniera assai fertile.

In realtà Mounier ha raccolto la sua elaborazione e la sua proposta, che è insieme teorica e politica, perché riguarda tanto la costellazione ideologica (il patrimonio di idee e di prospettive) quanto la progettualità politica e la costruzione sociale, nella formula, chiamiamola così, del «personalismo comunitario». Di esso, e più in generale dell’eredità mounieriana, vagliata nei suoi ricchi cespiti di pensiero e di progettualità politica si è occupato un recente volume, cui ovviamente si può fare riferimento per un’analisi più dettagliata (cfr. S. Sorrentino – G. Limone (a cura), La persona come paradigma di senso. Dibattito sull’eredità di Mounier, Città Aperta Ed., Troina [EN] 2009). Se vogliamo cogliere lo spessore di questa costellazione di idee e di questo progetto politico, cioè di assetto della convivenza umana dentro società strutturate, possiamo focalizzarlo in poche battute. Tenendo però conto che esso, in primo luogo, ha una ricca genealogia storica e una notevole portata politica, e pertanto rappresenta una risorsa euristica rispetto alle realizzazioni concrete e storiche, in secondo luogo fornisce un criterio ermeneutico per decodificare formazioni ideologiche e progettualità politiche, e in terzo luogo possiede una struttura progettuale capace di innervare efficaci proposte di organizzazione della vita comune e di ispirare riforme che rivoluzionino davvero i rapporti sociali. Orbene, tre grandi fratture attraversano il mondo umano e lo rendono incapace di realizzare pace, giustizia, equità e riconoscimento reciproco.

Le fratture che attraversano il mondo umano

La prima è quella della violenza, per la quale si creano rapporti di dominio dentro la convivenza umana a tutti i livelli, vale a dire tra gli individui, tra i gruppi, tra i grandi aggregati storico-sociali (le nazioni, gli Stati). La seconda è quella dell’interesse, per cui si producono aggregati di interessi (classi) in conflitto competitivo tra loro, senza che mai la convivenza civile e politica sia in grado di sedarli e di dare loro soddisfazione in maniera equa e condivisa. Infine la terza è quella della proprietà ovvero dell’appartenenza, per cui si riproduce di continuo l’estraneità e l’inimicizia rispetto a coloro che stanno fuori dalla propria cerchia di appartenenza.

Ebbene la persona è quella struttura di senso che sola è in grado di mettere riparo a questa triplice frattura del mondo umano e di saldarla. Mounier di fatto la concepisce come il cardine della realtà più precipua del mondo umano nonché come il nucleo genetico della comunità e della società politica, da costruire beninteso, perché quella da noi vissuta non attinge a questo nucleo genetico. La persona in effetti è l’umano sollevato, attraverso appunto una rivoluzione del paradigma che sottende alla nostra civilizzazione, all’esponente della infungibilità, della generosità e del riconoscimento. In quanto infungibile, e dunque nella sua unicità e inalienabilità, la persona dissecca alla radice la logica del dominio, sia in senso attivo, in quanto dominazione sull’altro non riconosciuto nella sua unicità, sia in senso passivo, come assoggettamento a un dominio che contraddice la persona, perché produce l’alienazione della sua unicità. In quanto centro di interessi la persona coltiva interessi non divisivi, perché divaricanti (vita mea, mors tua), bensì interessi aggregativi, perché condivisi e condivisibili. In questo senso la persona è fulcro generatore di generosità e di gratuità, vale a dire di interessi con questo contrassegno. Insomma la persona è il fondo inesauribile di interessi che mai ne esauriscono la profondità. Infine, in quanto soggetto titolare di riconoscimento, attivo e passivo al tempo stesso, ossia dell’altro da sé e di sé da parte dell’altro, la persona sfugge alla cattura dell’appartenenza e del proprio, che è poi la causa più rilevante della dissoluzione degli individui in un tutto, di qualunque livello o fattura esso sia (gruppo, comunità, etnia, cultura, religione).

Dall’individualismo autodistruttivo al personalismo comunitario

Se dunque questa è l’ampiezza e lo spessore dell’elaborazione mounieriana di un «personalismo comunitario», c’è da chiedersi: fino a che punto abbiamo fatto i conti con il mutamento di paradigma che esso comporta? E si sa che quando avviene un mutamento di paradigma, ciò comporta una rivoluzione, vale a dire un capovolgimento di prospettiva e una innovazione nell’assetto complessivo. D’altra parte, è questo un ulteriore interrogativo, quale apporto può fornire l’elaborazione di Mounier per affrontare la crisi di senso (la crisi di civiltà) che il nostro mondo contemporaneo sta attraversando? Non c’è dubbio che il potenziale di invenzione teorica e di progettualità storico-concreta messo in opera da Mounier ci chiama a confrontarci con la sua eredità e a farne tesoro. Perché in essa si raccolgono lumi di intelligenza e indicazioni per l’esercizio della responsabilità etica indispensabili per andare incontro ai bisogni del nostro tempo, in cui un mondo uscito dai cardini e senza orientamento aspira alla gestazione di un assetto nuovo del mondo e di un tessuto integro dell’ethos umano e sociale.

Sergio Sorrentino, Dipartimento di Filosofia, Università di Salerno