Seppuku e altre diavolerie
Se l’ex premier giapponese Taro Aso fosse vissuto al tempo dei samurai, dopo la sconfitta alle elezioni dell’agosto 2009 a opera dei democratici – mai saliti al potere negli ultimi 54 anni – probabilmente si sarebbe suicidato. Invece si è limitato ad ammettere pubblicamente: «È colpa mia, mi dispiace, ho fallito». Dopodiché non ne abbiamo più sentito parlare. E neppure ne sentiremo. Perché Taro Aso è venuto meno al suo compito. E si è messo da parte. Ha preso la sua responsabilità di petto, senza scappatoie.
La civiltà del servizio
La civiltà della colpa (e dell’onore inteso come capacità di svolgere al meglio ciò che si è chiamati a fare) è, a pensarci bene, la civiltà del servizio, dell’abnegazione totale a un fine. Quando vieni meno al tuo dovere, allora è normale fare ammenda. I samurai, fedeli alla via del bushido, della spada, si toglievano la vita. La cultura giapponese ha mantenuto fino alla fine dell’Ottocento la pratica del seppuku, il suicidio rituale. Il guerriero procedeva al proprio sventramento mentre un suo secondo gli tagliava la testa. Per compiere il rito l’unica arma ammessa era la wakizashi, la spada corta che ogni samurai aveva il diritto di portare insieme alla katana, la spada lunga (mentre al resto della popolazione era vietato). La wakizashi è il guardiano dell’onore. L’estremo, violento, radicale rimedio a una vita che si è discostata dalla retta via. Per essere coerenti fino alla morte.
Leggendo con occhi aristotelici la civiltà della colpa giapponese
Saltellando tra viaggi e letture, mi sembra che la soluzione giapponese ai propri errori sia l’estrema configurazione di un modello di virtù che arriva a noi attraverso i classici greci. Un azzardo affascinante, in cui mi butto senza pensare a eventuali rischi ermeneutici. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, giudica volgare chiunque assimili la felicità al piacere. Al contrario, la felicità, il sommo bene, è «l’attività dell’anima secondo virtù»: cioè l’opera propria dell’uomo (l’ergon) – che per il filosofo è l’esercizio della ragione – elevata al grado di eccellenza. La felicità delle piante è la realizzazione della loro essenza di piante (nutrirsi e crescere). La nostra felicità è essere umani al massimo grado: pensare e agire secondo il giusto mezzo, mediando le passioni.
Poiché ognuno ha la propria funzione, il proprio ergon, la realizzazione del samurai (che coincide con la sua felicità) sarà progredire nella via della spada ed essere leale al proprio padrone come al proprio destino; l’ergon del primo ministro sarà invece governare bene e portare maggiore benessere al proprio Paese; l’ergon del cameriere soddisfare il cliente, prevederne i bisogni, accrescerne – perché no – la cultura, aggradarne il senso estetico. Camerieri e cameriere giapponesi offrono la quintessenza del servizio: molte volte si sforzano di spiegare cosa siano le pietanze (e come mangiarle), sono solerti, devoti quasi allo straniero che si affaccia sulla loro cucina. Il loro lavoro sprizza dignità da ogni lato. Il servizio è un onore. L’onore è la virtù propria, l’eccellenza raggiunta nel proprio ergon. La virtù privata provvede a una dignità che splende anche nel pubblico. Il cerimoniale di inchini con cui i giapponesi si salutano, si presentano, prendono commiato, ringraziano o si mettono a servizio (dai capotreni alle signore che ti portano il tè) non fa che aumentare l’aurea di dignità che avvolge sia l’ospite che il suo accompagnatore.
In questo modello di comportamento, un fallimento non presuppone la vergogna verso un pubblico esterno, anzi: non c’entra qui la riprovazione che la comunità getta su uno dei propri membri, come nella civiltà omerica di Agamennone e Achille, che perdono la faccia (l’onore) se non agiscono esattamente come ci si aspetta che facciano personaggi del loro calibro. In fondo l’eroismo non porta altro che la fama, nient’altro (come sostiene Eric R. Dodds nel saggio del 1951 I greci e l’irrazionale, un titolo quanto mai d’attualità). La fama è un accrescimento dell’onore, del buon nome. In un’ottica giapponese, probabilmente, la decisione di Achille di non combattere sarebbe vista come una colpa. Un tradimento del suo essere guerriero. Anche qui: un venir meno al suo compito. C’è un nesso morale tra la colpa e un’eventuale conseguente punizione (meritata). È come disobbedire all’imperativo morale categorico, avrebbe detto a fine Settecento Immanuel Kant: devi perché devi. Devi combattere perché è la tua naturaàdi guerriero, come devi fare il bene del Paese perché è la tua natura di primo ministro (!). L’onore, in questo caso, non è più solo il buon nome ma la fedeltà e la coerenza alla virtù, la sua realizzazione al massimo grado.
Ammissione di colpa in occidente: per salvare la faccia
Ma se il vincolo morale con cui la civiltà della colpa lega le azioni alle loro conseguenze si dissolve, siamo retrocessi alla mera civiltà della vergogna?
Lasciando il caso giapponese a un’analisi capace di tener conto del retroterra culturale di un Paese che ha inventato i kamikaze, come possiamo giudicare i recenti casi di «ammissione di colpa» di personaggi pubblici? Sono la confessione di esser venuti meno alla propria virtù, o tentativi di salvare la faccia di fronte al pubblico, agli sponsor, agli elettori? Pensiamo a Bill Clinton alle prese con l’affaire Lewinsky: lui prima nega, poi ammette tutto di fronte all’abitino macchiato di lei. Ancora: il governatore di New York Eliot Spitzer. Viene pizzicato come cliente di escort d’alto bordo, l’America puritana s’indigna, lui si dimette adducendo «un fallimento personale». Tiger Woods, campione multimiliardario del golf, è un traditore seriale, la moglie lo becca, lui inscena un finto incidente d’auto, poi viene a galla la verità, gli sponsor tagliano la corda e lui recita un mea culpa in mondovisione (regalando per Natale 300 milioni di dollari alla moglie, sembra). Papa Giovanni Paolo II chiede scusa per le colpe della chiesa, Benedetto XVI chiede di pregare per i preti pedofili. Il comico americano David Letterman si scusa in diretta dal suo show con la moglie tradita: «L’ho ferita, voglio rimediare». Piero Marrazzo ha fatto ammenda a Montecassino dopo varie genuflessioni pubbliche. L’ex capitano della nazionale inglese di calcio John Terry, coniugato e con figli, se la spassava con la fidanzata di un compagno: anche lui si cosparge il capo di cenere, ma senza successo (professionale). L’allenatore della nazionale, Fabio Capello, gli toglie la fascia di capitano.
Avranno riconosciuto la colpa di aver tradito il proprio ergon? Se sì allora, come dice Aristotele, la felicità è ancora possibile.
In Italia, una diavoleria giapponese
Tra gli italiani e le scuse pubbliche sembra esserci meno feeling. E se non si arriva neppure all’ammissione è impensabile ogni successivo rimedio. Berlusconi e il caso D’Addario: «Non sono un santo». Berlusconi e i soldi della cricca, Berlusconi e il caso Scajola, Berlusconi e i collegamenti con la mafia: «Complotto». Bersani dopo aver perso Campania, Calabria, Piemonte e Lazio alle elezioni regionali: «Non è andata comunque male».
Il seppuku? Una diavoleria giapponese. La felicità come massimo grado di virtù? E chi se lo ricorda Aristotele.