Uno sviluppo umano
«Siamo diventati un laboratorio di illusioni fallite. La nostra maggiore virtù è la creatività ma non abbiamo fatto altro che vivere di minestre riscaldate e guerre altrui, eredi di uno sventurato Cristoforo Colombo che cercando le Indie finì per incontrare l’America». [Gabriel Garcìa Márquez, Ilusiones para el siglo XXI, 1999]
I due cortesi funzionari della Regione Calabria allargarono le braccia: «Fondi per le biblioteche non ce ne sono, dalla Comunità Europea poi non arriva più niente perché non sono più considerate fattori di sviluppo».
Eravamo appena usciti dalla Salerno-Reggio Calabria, ancora avvolti nella nube di ottundimento che frastorna l’avventuroso viaggiatore autostradale, quello che dopo Napoli è disposto a proseguire verso sud. Un’autostrada dignitosa sarebbe un buon argomento per lo sviluppo del nostro Meridione. Ancor prima che comincino a piantarsi giganteschi piloni nelle acque profonde tra Scilla e Cariddi, gli avvoltoi volteggiano già sinistri su quell’incantevole braccio di mare al centro del Mediterraneo, il più inquinato dalle scorie radioattive delle ormai famose «navi a perdere».
Le parole dei due funzionari ritornano come un crampo doloroso nel corso di quei pochi intensi giorni in giro per la Calabria a interrogarmi sul nesso forse non del tutto insondabile tra la Salerno-Reggio e i pochi libri a disposizione per il prestito, la devastazione edilizia che ha violentato irrimediabilmente un territorio stupendo e la miopia di una malapolitica che non è in grado, o forse teme, di investire in cultura e in istruzione.
Certamente lo sviluppo è qualcosa che è mancato in alcune zone del nostro civile e occidentale paese. Ma che cos’è lo sviluppo?
Dalla Calabria all’America Latina, il passo è solo apparentemente lungo.
Il disorientato Cristoforo Colombo che con le sue caravelle approda tra gli scogli di un continente ignoto agli europei, inaugura inconsapevolmente la strada dello sviluppo. Gli europei, per nulla sopraffatti dalla sorpresa, si sentirono investiti della patria potestà, a partire dal nome di battesimo: America.
Sviluppo: il «sogno del bianco»?
«Sviluppàre = Disviluppare, propr. togliere dal VILUPPO, perocché la s iniziale stia per DIS, che dà senso contrario alla voce semplice, cui sta unito. Ordinare o ravviare cose avviluppate; vale anche manifestarsi, venir fuora». [Ettore Pianigiani, Dizionario Etimologico, 1906]
Siamo destinati e forse condannati a un continuo sviluppo, che non è evolutivo per tutto il corso della nostra vita. Per noi occidentali il suo misterioso e ultimo compimento è diventato addirittura un tabù. Trovo (Anna Cossetta, Sviluppo e Cooperazione, 2010) che invece i Bubi della Guinea Equatoriale utilizzano un termine che vuol dire al tempo stesso «crescere» e «morire». I Sara del Chad ritengono che quel che si trova dietro ai loro occhi e che non si può vedere è il futuro, mentre è il passato che sta davanti a noi, perché ci è noto. I Camerunesi di lingua Eton hanno coniato un sintagma dal retrogusto ironico: «il sogno del bianco».
L’«uomo bianco», costretto nel suo sogno mai completamente realizzabile di dominio e di controllo, percorre da secoli in lungo e in largo il pianeta ove ha impresso la sua traccia: la geografia politica del mondo è opera sua, le tracce irrispettose dei confini, i molti improbabili toponimi dall’America alla Nuova Zelanda. Protagonista e vittima a un tempo di un’industriosa e bellicosa inquietudine di matrice nettamente europea.
Un’inquietudine molto occidentale
«L’inquietudine che l’uomo prova per la mancanza di una cosa che, se fosse presente, gli procurerebbe piacere, è quel che si chiama desiderio… E non sarà forse inutile osservare che l’inquietudine è il principale stimolo, per non dire il solo, che ecciti l’industria e l’attività degli uomini». [John Locke, Essay concerning human understanding, 1690]
La Gran Bretagna si dimostrò più efficace di altri paesi nel trasformare le terre conquistate in investimento di capitale e produsse la prima e grande rivoluzione industriale. Al polo opposto, la Spagna, meno pragmatica e imprenditoriale, si ripiegò su se stessa dopo aver investito in modo un po’ «barocco» le rimesse in oro e argento dell’America Latina.
Gottfried Leibniz era ossessionato dall’idea di costruire una grande e pacifica Unione Europea ante litteram. Vedendo che era impossibile impedire agli europei di combattere fra loro, propose di volgere il furore guerriero verso altri continenti, «contro i selvaggi e contro gli infedeli».
I confini europei, giunti a una loro faticosa stabilizzazione, chiedevano solo di essere prolungati in un altrove mitico, una terra dell’oro, un Eldorado quale si presentarono appunto l’America e poi l’Africa, l’Asia e tutto l’orbe terraqueo. L’incontenibile uomo bianco non poteva accettare limiti, doveva assecondare i suoi desideri, svilupparsi e progredire.
Il diktat economico, sotteso o sovrapposto a questa sottile inquietudine, fu all’origine delle guerre di conquista e poi delle colonizzazioni. E infine, delle decolonizzazioni.
Il mito della crescita illimitata
«Chiamata in essere da tanti fattori, la crescita diventò un assoluto attorno a cui l’Occidente si affaccendava». [Luigi Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, 2003]
L’ansia, l’ineluttabilità di una crescita illimitata si incarna in economia nell’idea di un’automobile che non deve semplicemente correre, raggiungere una velocità costante, ma continuamente accelerare il suo moto. Chi vorrebbe salire a bordo di un veicolo siffatto? si chiede ironicamente Luigi Zoja. Una tale crescita di alcuni non può che lasciare a piedi molti altri. Nel 1967 Paolo VI (non un manifesto socialista) auspicava un’economia «al servizio dell’uomo», poiché vedeva «accrescere ulteriormente la ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, ribadendo la miseria dei poveri e rendendo più pesante la servitù degli oppressi». Lo sviluppo non poteva essere ridotto alla semplice crescita: «Per essere sviluppo autentico, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo».
Nel 1972, un gruppo di economisti (Manifesto di Nicholas Georgescu-Roegene, et al.) cominciò a rendersi conto dell’isolamento a cui si era ridotta la sua disciplina e che era indispensabile per il bene del pianeta, l’oikos, «la casa comune», che l’eco-nomia è chiamata ad amministrare, lavorare a fianco «di tutte le donne e di tutti gli uomini che operano in qualsiasi campo del pensiero e del lavoro». L’economia doveva riconquistare una «visione più umana» e subordinare la produzione, il consumo e il profitto a superiori valori di equità di distribuzione e di giustizia.
Parallelamente anche il concetto di ecologia è venuto integrandosi nell’idea di sviluppo. Uno sviluppo «sostenibile» risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità per le generazioni future di soddisfare le proprie. L’economia deve coniugarsi con l’ecologia (con la quale condivide la medesima radice etimologica) per produrre equità.
Un’economia priva di un logos sottostante non ha fondamento.
Sviluppo umano: «enlarging people’s choices»
«Non si può separare la cultura dalle attività economiche, e ancora meno pensare allo sviluppo fuori della cultura. (…) Non è la cultura che è immersa nello sviluppo, ma lo sviluppo che sta immerso nella cultura». [Human Development Report, 2004]
Nel 1990 nasce l’idea e il tentativo di quantificare lo Sviluppo Umano (a opera, fra altri, anche del futuro premio Nobel, Amartya Sen). Il PIL non poteva più essere l’unico strumento per misurare la ricchezza e il benessere e un nuovo indicatore, l’ISU (Indicatore di Sviluppo Umano), veniva a integrare tre valori statistici socio-economici: la speranza di vita alla nascita, l’istruzione (calcolata in base al tasso di alfabetizzazione degli adulti e al tasso di scolarizzazione) e il livello di vita (PIL pro capite corretto in funzione del potere d’acquisto). L’ISU comprende anche complessi dati statistici per la misura delle disuguaglianze di genere.
Sviluppo Umano significa quindi offrire alle donne e agli uomini più possibilità di scelta. L’accesso al reddito non è visto come fine in sé ma come mezzo per acquisire benessere e la speranza di una vita più lunga; l’accesso alla conoscenza, la libertà politica, la sicurezza personale, la partecipazione comunitaria e la garanzia dei diritti umani sono elementi fondamentali di un vero sviluppo, di uno Sviluppo Umano.
I paesi occidentali cessano, almeno in linea teorica, di essere il modello indiscusso da imitare perché nella prospettiva dello Sviluppo Umano la cultura inizia a ridefinire il suo ruolo in una maniera più attiva, varia e complessa. Cultura non è solo la formazione umanistica e individuale che consente di «coltivare» l’essere umano. È anche il variegato insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini delle diverse popolazioni del mondo e concerne sia l’individuo che la collettività di cui fa parte. Tale dicotomia è solo apparente.
Chiedo a Nadia, una giovane pakistana giunta in Italia al seguito di un marito imposto (come dice lei) dalla sua «cultura», cos’è importante, a suo parere, per lo sviluppo di un popolo. Senza esitazioni mi risponde: «More education!»…
Lo sviluppo non può prescindere dalla cultura e «nella cultura è immerso». Ma non si può parlare di sviluppo umano dove non si privilegia l’infanzia, che è l’umano «in via di sviluppo», e dove non si dà spazio alle donne, che sono il «potenziale femminile dell’umano». Scuole efficienti e inserite nei contesti comunitari di appartenenza che educhino alla cittadinanza e alla partecipazione attiva, che forniscano gli strumenti «del fare», ovviamente, ma a partire da quelli «dell’essere». E… tante biblioteche piene di libri.
Perché, se è vero che entrambe le accezioni del termine cultura sono reciprocamente imprescindibili, è necessaria una buona dose di cultura per, come dice Samuel Butler, poter guardare criticamente alla cultura alla quale apparteniamo: «A man should be just cultured enough to be able to look with suspicion upon culture». [Samuel Butler, Note-books, 1883]