La collera e la pazienza, il grido frenetico e il silenzio

di Stoppiglia Giuseppe

Alla ricerca di un centro di gravità permanente

«Certe mattine indosso un vestito bianco
e mi accorgo che gli avvoltoi
hanno il frak
ed eseguono in cielo
perfetti giri di tango».
Arnaldo De Vidi

«Bisogna vedere quel che non si è visto,
vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel
che si era visto in estate,
vedere di giorno quel
che si era visto di notte,
con il sole dove la prima volta pioveva,
vedere le messi verdi, il frutto maturo,
la pietra che ha cambiato posto,
l’ombra che non c’era.
Bisogna ricominciare il viaggio.
Sempre».
Josè Saramago

Adriano, la ricerca

«In me coesistono due pulsioni» – mi confessa Adriano, mentre aspettiamo la ripresa del dibattito in un corso per operatori sociali – «una è il bisogno di un rifugio che mi consenta la meditazione e la riflessione, l’altra è la curiosità, il desiderio di esplorare il reale, di vivere intensamente il quotidiano. Introversione ed estroversione, insomma. Immersi nel processo turbolento di accelerazione sociale che caratterizza il mondo contemporaneo, è indispensabile, anche se molto faticoso, individuare uno spazio protetto per la propria dimensione spirituale. L’affanno e la corsa rendono asmatica la vita di chi non può disporre di uno spazio intimo, di un luogo gratuito per rallentare, respirare, fare silenzio e perché no, pregare. È dunque essenziale per ciascuno, oltre alla dimensione spirituale, una dimensione domestica, che si può chiamare casa, nido o eremo.

Probabilmente non riflettiamo abbastanza sul fenomeno dell’urbanizzazione, sul contrasto città e campagna, sulla trasformazione avvenuta nel passaggio dai modelli di vita rurale a quelli della civiltà industriale, meccanizzata, motorizzata. Un passaggio talmente veloce e aggressivo che ha fatto smarrire i punti di riferimento essenziali. Ci è venuto a mancare un centro di gravità permanente (Franco Battiato), lo spazio gratuito, cioè, dove i valori condivisi possono trasformarsi in obiettivi collettivi. In città è un continuo bombardamento di stimoli. Tutto è veloce, intenso, frenetico, un ritmo che stanca e stordisce. Una volta adattati all’ambiente, però, non si riesce più a stare soli, in silenzio, non si riesce più a trovare il tempo per elaborare un’esperienza che subito si corre dietro a nuove emozioni, a nuovi stimoli o curiosità. In campagna, invece, il contesto è spesso più favorevole.

Alla noia iniziale subentra successivamente la scoperta (non sempre) di un mondo sconosciuto che è dentro di noi. Sono due tensioni, due dimensioni che dovrebbero integrarsi, perché l’isolamento prolungato impigrisce, mentre il ritmo cittadino impedisce l’affinamento della soggettività e lo scavo interiore, così da essere come catapultati fuori, in superficie, inghiottiti da notizie, spettacoli, operazioni attive, in balia del caso o dei «persuasori occulti».

Nevrotizzati da tanto «fare», si finisce con l’aderire perfino a una religiosità preconfezionata, i cui significati e le cui riflessioni risultano ritagliati da altri per noi. Una religiosità dai tratti aspramente dogmatici e rigidi, ricca di certezze, di frasi fatte e di chiusure. Una religiosità che funge da ansiolitico e magari con il compito principale di contenere le paure che deprimono il cuore e che ci rendono dei fuggiaschi». «Personalmente – insiste Adriano, ormai incontenibile nella sua esposizione – ho bisogno di vedere, di partecipare, di non sentirmi spaesato, emarginato, suddito. Per ritrovare tutto questo, per gustare il sapore e il fascino del silenzio e della solitudine, per non sentirmi bruciato nell’istantaneità di impressioni o nella dispersione di una ridda caotica di attimi, di fatti non assimilati, di gesti non interiorizzati, ho la necessità impellente di un ambiente protetto, dove tutto, dentro di me, possa diventare più chiaro e comprensibile. La diversità degli stimoli arricchisce sì, ma confonde anche le idee e i sentimenti. Ogni giorno che nasce è per me una chiamata, una sfida per vivere nel mondo, senza essere del mondo – come diceva Gesù – perciò, ho bisogno di ritrovare un mio equilibrio, una mia verità».

Rita, l’attesa

«… quella sera – mi scrive Rita – lui, abitualmente taciturno e riservato, mi è sembrato improvvisamente un altro uomo. Parlava con frenesia, come fosse in preda a una strana eccitazione, ossessionato da qualcosa d’irrazionale, visibilmente turbato.

Gridava, rosso di rabbia e di rancore. Non lo avevo mai visto così alterato, incontenibile, violento; mai mi aveva aggredito con parole così pungenti, volgari, cattive. Passai la notte seduta su una poltrona, agitata da pensieri cupi. Ero sconvolta, ma non triste.

Pensavo che stava succedendo qualcosa di nuovo. Avevo deciso che non mi sarei fermata, sarei andata avanti comunque, non importava dove, né come, né perché, ma sempre in vigile attesa dell’aprirsi di quella strada che sembrava senza meta. L’anima, quella sì, era stanca e in quella notte, forse, era stanco anche il dolore. Cercavo ristoro alla sete immensa di conoscenza, desideravo cure al tormento dell’ansia e pace per uscire da quel momento buio.

Al mattino si avvicinò e mi chiese timidamente di accompagnarlo in una chiesa. Un fatto strano, assolutamente insolito. Pensai subito che avesse un presentimento di morte e che il suo atteggiamento della sera precedente fosse dovuto a qualcosa di grave, accaduto nella giornata. In chiesa si staccò da me, s’inginocchiò sull’ultimo gradino di un altare laterale e passò molto tempo in un raccoglimento profondo. Uscendo, mi strinse forte il braccio e mi sussurrò: «Ho sentito il bisogno di chiedere perdono a Dio per poter continuare a vivere con te». Da quel momento nella nostra relazione è avvenuta un’inversione di marcia. Ora capisco che era esattamente quello che attendevo dai ventitre anni di convivenza…».

Il problema irrisolto delle rivoluzioni

Ho riflettuto molto su questa necessità di interiorizzare, su quest’attesa silenziosa che attraversa la vita dell’umanità e mi sono fermato volutamente sui tanti volti che ho incontrato nella mia vita, soprattutto sui volti di donne semplici, ma forti, senza titoli e magari senza ruoli, ma con una sublime ricchezza interiore. Da quello della vecchietta che mi avvicinava per ricevere l’assoluzione pasquale, portando su di sé la storia di decenni d’oppressione, a quello di una mamma a cui avrei voluto dire: «È il Padre che deve chiedere perdono a te, sorella mia, per aver permesso che le tue spalle sopportassero un carico così pesante».

Il nostro tempo sembra essere quello della collera, così che parlare di attesa silenziosa potrebbe sembrare una mistificazione o peggio una tacita rassegnazione di fronte alle poche iniziative di cambiamento e di liberazione presenti in Italia e nel mondo. La collera dei giovani e della donna, indiscutibilmente, hanno fatto avanzare, in epoche diverse, la storia verso l’uguaglianza, come valore umano e cristiano (basti ricordare i balzi storici avvenuti nel secolo scorso con il movimento del ’68 e del femminismo). Sono convinto, però, che le grandi rivoluzioni hanno bisogno, per essere veramente «umane», di una lunga gestazione, di una ricerca oscura, paziente e costante alla radice dell’umanità. Un salto della storia ha bisogno di molti anni, forse anche di secoli, per maturare frutti che alimentino la crescita dell’uomo totale.

La Chiesa a volte si ritira spaventata dai progetti rivoluzionari e molti cristiani (troppi) cercano riparo sotto le sue ali, così, questa umanizzazione che dovrebbe farsi concreta, si allontana. Gesù aveva dato un altro consiglio: «Gli abitanti della terra moriranno per la paura… le forze delàcielo saranno sconvolte. Quando queste cose cominceranno a succedere, alzatevi perché è vicino il tempo della vostra liberazione» (Lc. 21, 26-28). Chi non sa leggere la storia e resta abbagliato dalla cronaca si chiede e chiede di vedere i frutti della collera, ma dimentica che, per vedere i frutti, prima va costruita la riconciliazione e ricomposto l’uomo totale. Il vero problema irrisolto di tutte le rivoluzioni.

La persona scopre la sua vera identità, come essere di relazione, quanto più vive la dimensione di reciprocità, quanto più mette al centro del movimento la persona umana, mentre l’attuale epoca tecnologica la concentra solamente sulla successione vertiginosa degli oggetti, trascurando il suo radicale bisogno di relazione e di fare la storia.

In contrasto con l’attesa silenziosa di Rita, non è la collera, ma lasciare che la televisione, i supermercati, le varie proposte religiose, decidano il programma che poi riempierà il suo tempo. Non è facile salvare l’esigenza di relazione interpersonale, di promuovere gli altri per promuovere se stessi, in una cultura che maneggia la tecnica per allontanare la persona da se stessa e per farle abitare pacificamente l’esteriorità, abbandonandola così all’isolamento e alla subalternità.

Luis Dumont diceva che «l’individualismo radicale è l’anticamera della dittatura». È diventato forse questo l’obiettivo nascosto (non tanto) dell’attuale sistema sociale e politico?

La reciprocità, la relazione

Sappiamo invece che l’epicentro di ogni vero cambiamento o rivoluzione è nel riconoscimento della propria strutturale vocazione relazionale. Sappiamo anche che questa ricerca richiede una grande capacità di attesa silenziosa ed è chiaro che questa pazienza non è reale, ma astratta, se non si incarna in relazioni umane. Gesù infatti affermava: «Se uno ti chiede la tunica, tu gli lascerai anche il mantello. Se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un chilometro, tu con lui ne farai due. Con la stessa misura con cui trattate gli altri, Dio tratterà voi» (Mt. 5, 41-43).

Qual è il tempo dell’attesa silenziosa e qual è il tempo del cambiamento che inaugura cieli nuovi e terre nuove, che alimenta la storia di speranza? Questa domanda contiene tutto il rischio di vivere e il segreto della personalizzazione. Il Vangelo consiglia la pace e la guerra, l’attesa paziente e la collera: «Non pensate che io sia venuto a portare pace nel mondo: io sono venuto a portare non la pace, ma la discordia» (Mt. 10,34). Non si tratta di un rompicapo,di un voler conciliare l’irriconciliabile.

Le contraddizioni del Vangelo si fanno armonia, sapienza di vita, quando il progetto di realizzarsi nell’amore e di proiettare nella storia l’esperienza di una relazione pacifica e amorosa, costituisce l’unica ragione del vivere. «La fede cristiana – per dirla con De Certeau – è un modo di diventare l’ospite di un altro che inquieta e fa vivere. La fede è, perciò, capace di attraversare anche questo nostro tempo, malconcio sì, ma ancora e più che mai da amare».