Sicurezza urbana e cultura dei diritti
Siamo certi di essere più sicuri?
Ordinanze dei sindaci e sicurezza urbana
Come è ormai noto, sono moltissimi i sindaci che, soprattutto in seguito alla modifica, avvenuta nel 2008, del «testo unico degli enti locali», si sono avvalsi della possibilità di adottare «con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» (art. 54, comma 4, decreto legislativo n. 267/2000).
Da un’ottima analisi condotta dall’ANCI e dalla Fondazione Cittalia (pubblicata il 1° ottobre 2009) si apprende che in un anno sono state emesse ben 788 ordinanze da parte di 445 sindaci di altrettanti comuni.
Gli obiettivi di volta in volta oggetto delle ordinanze sono stati molteplici: il divieto (tout court) della prostituzione su strada; il divieto (spesso molto ampio) della somministrazione e del consumo di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti (anche laddove consentito, viceversa, dalla legge); il divieto di accattonaggio (sic et simpliciter); il divieto generalizzato di ogni attività per lavavetri o per talune categorie di commercianti ambulanti; le restrizioni alla vendita di determinati alimenti (in particolare il kebab); la riduzione degli orari e la fissazione di ulteriori requisiti dimensionali o igienici per phone center o money transfer; il divieto di insediamenti abusivi di immigrati o di rom; la protezione del decoro urbano (in senso lato); la disciplina restrittiva dell’utilizzo di panchine o di spazi verdi pubblici da parte di più persone (con previsione, ad esempio, del divieto di fumo o del divieto di utilizzo della panchina da parte di un certo numero di persone, onde impedire la formazione di «bivacchi», ovvero, ancora, dalla necessità di essere muniti, a tal fine, di valido documento di identità); l’affissione obbligatoria (sic) dei crocifissi nelle scuole; l’utilizzo del dialetto locale negli spazi pubblici (sic); le modalità di festeggiamento dei matrimoni (con divieto, ad esempio, di utilizzare il riso); l’impossibilità di indossare determinati abiti (quali i burqua o i burquini); l’impossibilità di raccogliere lumache (sic); l’impossibilità di accendere un falò (anche al di là dei divieti di legge); l’impossibilità di circolare nelle vie del centro storico dalle 3 alle 6 di mattina; il divieto di «assembramenti» costituiti da «due» persone in determinati luoghi pubblici; il divieto di cibare i cani o gli animali (in generale) randagi. Gli esempi potrebbero continuare.
Ciò che colpisce è l’estrema varietà delle prescrizioni singolarmente adottate, oltre che la loro originalità. Non solo si prevedono spesso divieti che sono ulteriori e innovativi rispetto a quelli posti dalla legge, ma talvolta si rende vietato ciò che è dichiarato dalla legge come lecito, oppure si rende obbligatorio ciò che allo stato dell’arte, a ben vedere, non si potrebbe fare.
Alcune questioni problematiche
Il quadro, così brevemente illustrato, ha indotto gli operatori a svolgere diverse riflessioni.
In primo luogo ci si è chiesti se sia di per sé legittimo che il legislatore abbia conferito un simile potere ai sindaci.
Tradizionalmente, infatti, si è sempre sostenuto, da parte degli interpreti, che l’attribuzione di un potere di ordinanza, idoneo a esprimersi nella fissazione di regole in qualche modo eccezionali, si giustificasse soltanto entro termini circoscritti o, in casi del tutto straordinari, sulla base di un’adeguata e ampia motivazione volta a dimostrare la necessità concreta dell’intervento.
Il valore in gioco, come è evidente, è il rispetto del principio di legalità, almeno nel senso dell’obbligo della presenza di una previa disciplina legislativa o comunque normativa, di carattere generale, capace di limitare il potenziale arbitrio di un potere amministrativo per definizione atipico, come quello di ordinanza (artt. 23 e 97 della Costituzione).
In secondo luogo, poi, ci si è domandati se la disciplina della sicurezza urbana non sia, a rigore, un oggetto diverso dall’ordine pubblico e dalla sicurezza in senso stretto intesi, e se, quindi, non possano essere le Regioni i soggetti competenti a occuparsi di questa materia, così come avviene, pacificamente, per la polizia amministrativa locale (in armonia, del resto, con quanto stabilito dall’art. 117, comma 1, lett. h, della Costituzione).
Giova notare, infatti, che nell’assetto organizzativo scelto dal legislatore statale, il sindaco, quando esercita il potere di ordinanza in questione, non agisce quale rappresentante della comunità di riferimento, bensì quale ufficiale di governo, ossia come terminale ultimo dell’apparato del Ministero dell’Interno. Sicché, mentre le competenze che il Comune ordinariamente detiene in tema di polizia locale rientrano in una politica pubblica di cui è responsabile lo stesso ente locale, il ruolo di dettare disposizioni eccezionali, capaci di incidere in modo significativo sui modi e sui tempi di tale politica, oltre che delle altre politiche pubbliche di competenza comunale (in primis quelle sociali), spetta inspiegabilmente a un organo formalmente statale e soggetto al controllo del prefetto.
Occorre ricordare, inoltre, che, di fatto, alcune regioni (tra cui la Lombardia, l’Emilia Romagna o il Lazio) hanno da tempo sperimentato una disciplina particolare della sicurezza urbana, prevedendo forme di collaborazione tra la polizia municipale e la cittadinanza che voglia proporsi come «attiva» e individuando a tale scopo modelli operativi del tutto originali. Ma occorre anche rammentare che lo stesso governo ha da tempo avviato l’instaurazione di prassi collaborative tra le forze di polizia e i comuni (i cc.dd. «patti per la sicurezza»), nella consapevolezza, cioè, dell’opportunità di un’integrazione tra le politiche locali e l’azione specificamente svolta dall’autorità di pubblica sicurezza.
In terzo luogo, infine, si è dubitato sul concreto ed effettivo atteggiarsi del potere di ordinanza e sul reale rispetto, da parte dei sindaci, della stessa legge che conferisce loro una così peculiare attribuzione.
Nella maggioranza dei casi, infatti, i sindaci non hanno fornito alcuna motivazione concreta e circostanziata sulle ragioni del ricorso a simili misure e sull’adeguatezza o proporzionalità delle stesse rispetto all’obiettivo indicato. Alcune pronunce del giudice amministrativo (in particolare del TAR del Veneto) hanno riscontrato simile difetto. Ma c’è dell’altro.
In molti casi, i sindaci non hanno semplicemente cercato di prevenire o di circoscrivere oggettive e documentate situazioni di grave pericolo: essi si sono spinti, sovente, nella direzione di vietare o di imporre, in via generale, determinati comportamenti, i quali, viceversa, così latamente considerati, risulterebbero, rispettivamente, leciti o non ammissibili.
Politiche pubbliche e cultura dei diritti
A prescindere da qualsivoglia rilievo critico, il fenomeno delle ordinanze (presto definite «pazze» o «creative» per il loro contenuto spesso inedito e, come si è visto, a dir poco curioso) pone interrogativi che sono ancor più profondi rispetto a quelli più strettamente tecnici e che affondano le loro radici nel cuore della repubblica quale stato costituzionale di diritto.
Fino a che punto, infatti, è concretamente ammissibile che sia un solo organo politico, di per sé sfornito di un potere normativo, a dettare prescrizioni cogenti capaci di condizionare buona parte dei comportamenti quotidiani dei cittadini? Fino a che punto, in altri termini, si può accettare che, al di là di quanto desumibile dalla legge penale, il confine tra i comportamenti consentiti e quelli vietati sia stabilito di volta in volta anche dall’interpretazione che il sindaco possa eventualmente operare circa il «sentimento» della «maggioranza» dei cittadini che lo hanno eletto?
In alcune ricerche criminologiche si è espressamente paventato il rischio di un simile approccio: il soggetto politico direttamente eletto dalla maggioranza dei cittadini è naturalmente incline a forme di «populismo repressivo», con conseguente adozione di ordinanze «manifesto», le quali, lungi dal risolvere concretamente il pur ipotetico problema di sicurezza urbana, pongono i presupposti per una frammentazione del tessuto sociale e per una indebita e distorta redistribuzione della titolarità effettiva di molti diritti e di molte libertà.
Per il tramite di questa impostazione, la sicurezza urbana diventa materia di episodica ma diffusa e implicita «trasformazione» di molte altre sotto-materie (o, meglio, di molti altri problemi di carattere amministrativo che sarebbero altrimenti destinati a essere oggetto di specifiche politiche pubbliche, per definizione soggette al principio di legalità) in questioni di «sicurezza», da valutarsi localmente, a seconda degli umori dell’elettorato.
Il risultato paradossale di questa opzione è chiaro. A essere in pericolo non è la sicurezza, bensì l’esistenza di una cultura condivisa e non discriminatoria dei diritti e delle libertà di cui ciascuno è titolare in base alle regole e ai principi caratterizzanti il nostro ordinamento giuridico. Alla cultura dei diritti e delle libertà si sostituisce una non ben definita religione popolare della liceità: siamo certi di essere più sicuri di prima?