Quanto costa il panda?
Ma anche l’uomo è condannato all’estinzione
I format televisivi si rincorrono e ripetono in Europa così come nel mondo; si sa poco, si inventa molto, si copia. Accade, così, che anche la Gran Bretagna abbia un proprio Piero Angela: Chris Packam, che ha condotto e conduce numerose trasmissioni in cui il nostro pubblico potrebbe riconoscere il nazionale Quark. Non siamo qui a domandarci di chi debba essere la paternità di questo format, ormai (ed è un bene) estremamente diffuso, ma a riportare un’affermazione del conduttore fatta il mese scorso.
Il panda scompare
Packam sostiene che il «celebre» panda sia da lasciare estinguere. Certo l’affermazione non può non fare scalpore e suscitare in molti una superficiale indignazione basata sui luoghi comuni che accompagnano la preservazione delle specie e degli ecosistemi. In realtà il conduttore britannico motiva questa posizione spiegandoci che il panda si trova in una sorte di budello evolutivo, un cul de sac evolutivo. L’orso, simbolo della celebre fondazione ambientalista, si riproduce con estrema fatica e si nutre con circa 40 chili di bambù al giorno; ne consegue che i costi e l’impegno nella conservazione di questa specie sono molto elevati, mentre la percentuale di riuscita nel mantenimento del panda tra le specie viventi è molto bassa. Il risultato di queste considerazioni è che se questa particolare specie di orso ha deciso di riprodursi lentamente e di nutrirsi di un solo cibo, i costi che genera per la sua conservazione sono troppo alti e che, quindi, lo si può lasciare estinguere.
Questa notizia mi ha spinto ad alcune considerazioni. La prima, la più astratta e in parte banale è che ogni specie vivente è il frutto di un codice genetico: una volta scomparsa quella specie, quel codice, tutta la storia che in esso si è accumulata viene persa per sempre. Non possiamo non ricordarci, non pensare, non sapere che qualsiasi decisione differente da quella della conservazione è senza possibilità di ritorno, senza pentimento, senza cambio di rotta possibile.
Chiarito questo aspetto ritengo che ce ne siano altri due più pertinenti a questo dibattito e a questa rubrica.
Che ne sarà dell’uomo
Se è vero che il costo per il mantenimento della specie panda è troppo elevato (oltre a domandarmi chi abbia sostenuto questi costi negli ultimi millenni) mi chiedo quanto elevato è il costo dell’alimentazione, del soddisfacimento del bisogno nutrizionale di tutti noi.
Nell’informarmi sul dibattito che presento non ho trovato motivi che mi facciamo credere che il giornalista o i suoi intervistatori abbiamo posto l’accento su un aspetto molto semplice: quanto costa sfamarci? Quanti ipermercati, quanti supermercati, quanti allevamenti intensivi, quanto marketing, quanti camion per permetterci di sfamarci? Quanto costa, in termini economici, ambientali, lavorativi un piatto di fish and chips, quanto costa produrre l’olio per friggere, quanto inquina una volta utilizzato, quanto ostruisce le arterie, quanto pesa sui sistemi sanitari nazionali?
Il panda costa troppo, ma quanto costiamo noi? quanto costa e cosa causa il nostro sistema alimentare?
Noi (e Packam) abbiamo orti in cui coltiviamo ciò che ci serve? Tranne rarissimi casi, abbiamo, se abbiamo, orti che saziano il nostro appetito di svago e hobby, non quello alimentare.
Il nostro sistema alimentare si fonda su profonde ingiustizie che rappresentano costi sociali e ambientali: possiamo ritenere che questi costi non ci tocchino e possiamo ritenerci non in grado di modificare la situazione, possiamo ignorare tutto ciò, ma non possiamo chiedere che le specie «non autosufficienti» scompaiano adducendo a motivazione ciò che noi, in primis, non sappiamo fare.
Un’altra considerazione: ponendo il fatto che il panda, per sua propria colpa abbia deciso di infilarsi in un vicolo cieco e che, per sua propria colpa, quindi, noi lo si debba lasciare al suo destino (pur non continuando a capire quale istituto di credito in questo destino l’avrebbe mantenuto dalla sua comparsa sul pianeta fino agli anni ’60 del secolo scorso), non sorge di nuovo spontanea la domanda: e noi? Non ci stiamo noi stessi infilando nello stesso «tranello evolutivo»?
Quello che voglio dire è che la nostra dieta si sta progressivamente semplificando: i ristoranti etnici non bastano a rimpiazzare i sapori e gli alimenti che perdiamo in continuazione. Smarriamo specie di patate, di cipolle, di riso, di pomodoro… anno dopo anno, semplifichiamo la nostra dieta, stiamo svuotando il mare e lo stiamo svuotando per nutrirci di poche specie ultra sfruttate… Se il panda deve estinguersi perché «monogusto», forse lo stesso spetta a noi.
Mi sembra, in altre parole, che questa presa di posizione, oltre che essere criticabile in astratto, ci possa far riflettere sul fatto che le presunte colpe del panda, quelle che lo destinerebbero a una «giusta» (o meglio giustificabile) scomparsa, sono le stesse che destinerebbero noi all’estinzione.