L’amicizia nell’esperienza e nel pensiero di Simone Weil
Non è sogno, né desiderio, ma virtù che si esercita
La riflessione sull’amicizia accompagna tutto il percorso intellettuale e spirituale di Simone Weil. Essa procede, come ogni suo pensiero, con un ritmo circolare, spiraliforme, tornando metodicamente su un nucleo intuitivo originario, per riassorbirlo ogni volta in una luce nuova e proiettarlo in una dimensione sempre più elevata, senza mai tradirlo né abbandonarlo. Per capire questo, partiamo da alcune considerazioni giovanili, formulate a Parigi nel ’34 e trascritte nel primo dei Quaderni (p. 148-156): «È una colpa desiderare di essere capiti prima di avere chiarito se stessi ai propri occhi», e poi di seguito: «desiderare l’amicizia è una colpa grave. L’amicizia deve essere una gioia gratuita, come quella che dona l’arte, o la vita […], desiderare di sfuggire alla solitudine è una debolezza, l’amicizia non deve guarire le pene della solitudine, ma duplicarne le gioie. L’amicizia non si cerca, non si sogna, non si desidera; si esercita (è una virtù)».
Più tardi, nel ’42, riprenderà questi concetti esplicitandoli in modo ancor più lucido e non parlerà più soltanto dell’amicizia ma includerà nel suo argomentare l’esperienza più complessiva dell’amore, di cui la relazione amicale costituisce sicuramente l’aspetto più rilevante. Dirà: «Bisogna soltanto sapere che l’amore è un orientamento, non uno stato d’animo. Se lo si ignora, al primo impatto con la sventura si cade nella disperazione» (Attesa di Dio, Milano, Adelphi, 2009, p. 188).
Esperienza di gratuità
Di certo, nel lettore ignaro della precoce maturità intellettuale di Simone Weil, susciterà stupore la lettura di parole così limpide e taglienti già nel ’34, in un’annotazione scritta all’età di soli venticinque anni, non su un tema astrattamente razionale ma sull’esperienza della relazione tra esseri umani, un’esperienza che, a quell’età soprattutto, investe in modo vivo e spesso bruciante la soggettività di ciascuno e di una donna in particolare. Ciò che colpisce, è il lucido disincanto rispetto a ogni possibile forma di sentimentalismo in quel suo denunciare il rischio di un modo d’intendere l’amore come antidoto alla solitudine e alla fatica di vivere o come caccia illusoria a una felicità a buon mercato, simile a un oggetto luccicante che basta stendere la mano per afferrarlo senza difficoltà. Evidentemente, la giovane filosofa aveva precocemente compreso, e da quell’idea non si distaccò mai, l’urgenza di liberarsi dagli idoli della cultura dominante, tra i quali andava annoverato anche lo psicologismo di matrice romantica, frutto di un uso esasperato dell’immaginazione. Ciò che cominciava fin da allora a chiarirsi nella sua mente, e che in seguito verrà sempre più alla luce grazie alla costante lettura dei dialoghi platonici sull’eros, il Simposio e il Fedro, era per un verso il nesso tra amore e conoscenza e, per l’altro, la gratuità comune sia all’esperienza affettiva che al godimento della bellezza.
Certo, questa conquista dell’intelletto non è un punto di partenza, bensì un incerto e precario approdo nella sperimentazione che ciascuno compie su se stesso, sui sentimenti, sui pensieri, sulle emozioni, sul proprio modo di stare al mondo, una sperimentazione inesauribile che si dispiega lungo tutta la vita. Ma affinché questo sia possibile, è necessario che gradualmente si sviluppi nell’individuo la capacità di operare il distacco dall’immediatezza del desiderio, saperne contenere non solo l’urgenza ma anche l’illusione di possesso incondizionato della cosa, soprattutto quando tale cosa non sia un oggetto ma un altro essere umano, un nostro simile.
Pratica di vita e riflessione
Non deve meravigliare che questi pensieri si snodassero nella sua riflessione in perfetta contiguità con la militanza politico-sindacale e con l’approfondimento dei temi filosofici connessi all’oppressione sociale e alle diverse forme di liberazione tentate dagli uomini nel corso della storia. Tutto si tiene in Simone Weil: un nesso sotterraneo, una coerenza giocata fino in fondo sostengono l’elaborazione del suo pensiero che, pur nell’apparente frammentarietà dei Quaderni, tende a un’architettura rigorosa che se per un verso è scevra dalla pretesa di elaborare una visione totalizzante della realtà, è tuttavia costantemente, quasi ossessivamente sorretta da una volontà di sapere, da una domanda di verità che non arretra dinanzi a nessun ostacolo e non accetta sofismi né dogmatismi di alcun genere, né ideologici né religiosi.
Anche l’amicizia, dunque, è per lei, al tempo stesso, pratica di vita e oggetto di riflessione. Tale esperienza divenne particolarmente intensa nel periodo trascorso a Marsiglia, un periodo relativamente breve, dall’autunno del ’40 alla primavera del ’42, ma intensissimo negli affetti, nella solidarietà e nel confronto intellettuale con i nuovi amici, un confronto che la segnò in modo indelebile. Basti pensare all’intensità del dialogo sulla fede e la religione cattolica appassionatamente intrattenuto, in quegli anni, con il padre domenicano Joseph-Marie Perrin, di cui ci restano le lettere scritte a lui da Simone come vibrante testimonianza, ricca di spunti preziosi per una comprensione almeno parziale della complessità del suo accostarsi al divino senza mai abdicare alla libertà del pensiero.
Molto significativa anche l’amicizia con il poeta di Carcassonne, mutilato di guerra e da allora inchiodato al suo letto di dolore, Joì« Bousquet, un’esperienza bruciata nel fuoco di una notte, in un dialogo fitto, senza veli, libero da convenzioni e sovrastrutture: una messa a nudo reciproca di pensieri ed emozioni che, appena vissuta e sedimentata nella memoria, diviene per Simone, come sempre, occasione per riflettere e scrivere. Ed è per questo che le lettere inviate all’amico divengono anch’esse un prezioso scrigno che ci mette a contatto con alcune tra le punte più ardite della sua elaborazione filosofica di quegli anni.
Preziosa fu per lei, sempre nel periodo di Marsiglia, la frequentazione di un altro amico, lo scrittore Gustave Thibon, assai lontano politicamente, in quanto cattolico tradizionalista, e tuttavia amato e stimato come cercatore di verità, come persona autentica con cui potersi rapportare in un clima di sincerità senza riserve. Altra amicizia nata in quegli anni e del tutto particolare fu quella che la legò a un uomo invisibile, un giovane di cui non potette mai né conoscere il volto né udire la voce, una conoscenza avvenuta solo attraverso la scrittura, ma non per questo meno intensa e meno vera, in quanto per nulla inficiata da quel rischio di trasfigurazione immaginifica che quasi sempre si accompagna alle comunicazioni solo epistolari. La persona di cui si parla era Antonio Atarès, un contadino spagnolo anarchico, rinchiuso prima nel campo di internamento del Vernet, sui Pirenei, e poi a Djelfa, in Algeria. Ci restano soltanto le lettere di Simone, perché purtroppo sono andate perdute le risposte di lui, ma ciò che abbiamo è sufficiente, pur nella brevità degli scritti, per delineare un’amicizia pura che, fin dalle prime battute del dialogo a distanza, punta, con la forza della freccia scagliata senza esitazione, a dire la verità di sé e a porsi in ascolto della verità dell’altro. Ma ciò che forse più colpisce in queste lettere è la naturalità con cui la donna passa da un’attenzione quasi materna ai bisogni materiali dell’amico lontano a folgoranti intuizioni, altrettanto spontanee, sulla sventura, suo grande tema di riflessione, e sul valore salvifico dell’esperienza della bellezza, sia che provenga dalla natura sia che s’incarni nella poesia e nell’arte in generale.
Amore incondizionato
Ma torniamo a riflettere sul periodo trascorso da Simone Weil a Marsiglia durante l’occupazione nazista del nord della Francia, cui aveva fatto seguito la formazione nel mezzogiorno del paese, a Vichy, del governo collaborazionista del Maresciallo Pétain. Abbiamo già detto che, in sintonia con l’esperienza concreta di amicizie intense e profonde vissute in quel periodo, giunse a maturazione in lei una riflessione filosofica e religiosa che si tradusse in una scrittura densa ed essenziale, in cui cercava di farsi strada un pensiero assetato di verità e limpidezza, impaziente di liberarsi dalle scorie di quei conformismi ideologici e quei luoghi comuni in cui rischiavano d’impantanarsi tanti intellettuali del suo tempo. Tra questi scritti ve ne è uno che, nel contesto di un discorso più generale, sviluppa proprio il tema dell’amicizia, e si tratta di un testo di rara forza intuitiva e argomentativa. Esso fu fatto pervenire al padre Perrin nel maggio del ’42 alla vigilia della partenza di Simone per gli Stati Uniti, ove ella accompagnò i genitori, in fuga dal rischio di persecuzione antiebraica. Il titolo ne enuncia chiaramente il contenuto: Forme dell’amore implicito di Dio. Cosa significa amore implicito? Lo si può definire come una pratica di vita, una forma di esperienza anticipatrice, quasi preparatoria, all’amore orientato a Dio in modo diretto: un passaggio attraverso la bellezza della natura, e gli esseri umani in particolare, che sono in sé dei beni relativi (e come tali vanno percepiti) ma possono costituire degli intermediari, dei metaxy, come Simone amava dire seguendo la tradizione platonica. Essi, nella loro preziosa finitezza, lasciano intravedere un Bene più alto, che li trascende e tuttavia li include, e verso cui sarebbe fallace protendersi con una volontà attiva di conquista: il Bene, infatti, non si lascia catturare, non accetta di farsi preda degli sforzi umani, esso discende su chi sa porsi in attesa, in ascolto, in disponibilità. Non è mai scontato che ciò avvenga, in un certo senso non è neppure indispensabile, altrimenti non sarebbe un’esperienza di autentica gratuità, sarebbe un mero calcolo, un do ut des, un atteggiamento che rivela una religiosità idolatrica, lontanissima dalla spiritualità di Simone Weil. Ebbene, una delle forme dell’amore implicito, per lei, è proprio l’amicizia, considerata come incarnazione dell’universale nel particolare, ovvero sperimentazione in un rapporto concreto con un altro o pochi altri esseri umani della possibilità di vivere il difficile e precario equilibrio tra il desiderio di prossimità e di condivisione da una parte e, dall’altra, il necessario distacco dalla persona amata, un distacco che dovrebbe portare alla contemplazione e non all’illusione di possesso, che viceversa s’accompagna sempre al rischio di dipendenza o al sogno di dominio nei confronti di colui con cui ci si relaziona.
Percorso drammatico verso l’assoluto
Certo, si tratta di un equilibrio eternamente instabile, quasi sempre condannato allo scacco se affidato a una sapienza esclusivamente umana, ma valido comunque come orientamento esistenziale e, in ogni caso, possibile solo se aperto a un’ispirazione di tipo spirituale. Ciò non significa che, per amare, sia indispensabile aver preventivamente abbracciato questa o quella fede religiosa; è caso mai vero il contrario: solo chi si pone sulla via piena di ostacoli di un amore autenticamente disinteressato è nelle condizioni per poter accogliere, se mai gli giungerà, il contatto col sovrannaturale. Ma vi è una lunga parte del percorso che è affidata tutta alla capacità umana di vivere l’esperienza drammatica, quasi impossibile, della coesistenza dei contrari (vicinanza e distacco, autonomia e dipendenza, intimità e rispetto, ecc.): un percorso tutto in salita, simile a una scala che non si sa dove possa condurci. Simone Weil ce ne offre un’immagine di straordinaria bellezza: «Le correlazioni dei contrari sono come una scala: ciascuna si eleva a un piano superiore in cui abita il rapporto che unisce i contrari, ma non possiamo accedere al piano in cui essi sono legati. È l’ultimo gradino della scala. Là non possiamo più salire, dobbiamo fissare lo sguardo, attendere e amare. E Dio discende» (Quaderno III, p. 83).
[Questi temi sono ampiamente sviluppati in Simone Weil, L’amicizia pura. Un itinerario spirituale, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Troina (En), Città Aperta Edizioni, 2005].
Maria Antonietta Vito, già insegnante di Lettere nei licei
Simone Weil: elementi bibliografici a cura di Domenico Canciani
Canciani Domenico, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e riflessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma 1996.
Canciani Domenico, Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, Edizioni Lavoro – Editrice Esperienze, Roma-Fossano 1998.
Fiori Gabriella, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano 1981.
Di Nicola Giulia Paola, Danese Attilio, Simone Weil. Abitare la contraddizione, Edizioni Dehoniane, Roma, 1991.
Fulco Rita, Corrispondere al limite. Simone Weil: il pensiero e la luce, Edizioni Studium, Roma 2002.
Gaeta Giancarlo, Simone Weil, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1992.
Greco Tommaso, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, G. Giappichelli Editore, Torino 2006.
Marianelli Massimiliano, La metafora ritrovata. Miti e simboli nella filosofia di Simone Weil, Città Nuova Editrice, Roma 2004.
Negri Federica, La passione della purezza. Simone Weil e Cristina Campo, Il Poligrafo, Padova 2005.
Putino Angela, Simone Weil. Un’intima estraneità, Città Aperta Edizioni, Troina 2006.
Tommasi Wanda, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori Editore, Napoli 1997.
Trabucco Giovanni, Poetica soprannaturale. Coscienza della verità in Simone Weil, Edizioni Glossa, Milano 1997.
Veltri Francesca, La città perduta. Simone Weil e l’universo di Linguadoca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.