Nel centenario della nascita di Simone Weil
Parlare di Simone Weil è un’impresa ardua per diverse ragioni, non ultima le sue travagliate vicende esistenziali: nata da una famiglia ebrea non praticante, cresce ammirando l’eccezionale e precoce intelligenza del fratello André, di poco più grande di lei. Frequenta buone scuole, al liceo studia filosofia seguendo le lezioni di Alain, per poi iscriversi all’école Normale Supérieure, dove nel 1931 consegue l’abilitazione all’insegnamento; partecipa alla vita politica sindacale, insegna filosofia in alcune scuole femminili, viaggia in Germania poco prima che Hitler salga al potere, lavora in fabbrica come operaia, prende parte alla resistenza spagnola nel 1936. Scrive Gabriella Fiore: «Rapidi i tempi della sua vita: un mese a Berlino, a pensione da una famiglia operaia, nell’agosto 1932; insegnante di filosofia, tre anni continuati e qualche mese; poco più di un mese in Spagna; operaia, meno di un anno. La mole dei suoi scritti è enorme». Muore a trentaquattro anni, nel pieno del secondo conflitto mondiale, in una clinica inglese dove viene ricoverata in condizioni molto gravi: non riesce più ad alimentarsi. Il giornale locale titola French professor starves herself to death: professoressa francese si lascia morire di fame.
L’intelligenza di Simone Weil è multiforme, duttile, dedita agli interessi più diversi: i suoi scritti si occupano di letteratura, di storia, di filosofia, di religione, ma anche di lotte operaie e di conflitti politici a lei contemporanei. Frequenta le diverse tradizioni religiose e l’antichità greca, ma anche le riunioni sindacali e i corsi per il dopolavoro operaio: il suo pensiero non si separa mai dalla dimensione dell’azione.
Ma nel suo pensiero c’è un aspetto particolare che spicca sugli altri. È la sua capacità di rifiutare, di dire di no, di essere ferma nel diniego senza essere violenta. Quinzio ha parlato di lei come di un caso esemplare di «rifiuto ebraico dell’ebraismo».
In effetti, secondo alcuni, la riflessione weiliana è condizionata pregiudizialmente da una visione negativa del popolo ebraico e della sua storia, dal momento che rifiuta in toto l’identità nella quale dovrebbe riconoscersi, sempre trascurando però la potenziale fonte ebraica del suo pensiero. Rimane fuori da ogni dubbio che nel suo pensiero è sempre stato chiaro un rapporto privilegiato fra la grecità e il cristianesimo: la vocazione greca è diventata perfetta a contatto con la religione cristiana, ma non ha mai potuto realizzarsi pienamente in una civiltà a causa del contatto con Roma e dell’eredità giudaica.
Il mondo romano e quello ebraico sono corrotti dalla «forza»: questa è «ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. […] Tanto spietatamente la forza stritola, tanto spietatamente essa inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente». I greci ne hanno fatto l’oggetto della loro speculazione sin dai tempi più antichi, nelle opere di Eschilo, dei pitagorici, di Platone, rendendola il punto di partenza per pensare l’uomo e l’universo, ma l’Occidente l’ha perduta: le idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta della vita, non hanno più che un impiego servile nella materia. L’uomo è diventato geometra solo di fronte alla materia; i greci sono stati prima di tutto geometri nell’apprendimento della virtù.
Così Simone Weil può istituire un nesso diretto fra la grecità e il cristianesimo («Il vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade è la prima»), dal momento che ciò che sottende la tradizione greca così come quella cristiana è l’ordine di ricercare, al di là di ogni altro bene, il Bene supremo e la presa di coscienza della miseria umana, sia negli esseri divini che negli uomini. Ebrei e romani, invece, si sono sempre creduti estranei alla miseria umana in virtù della forza che derivava loro dall’elezione da parte di Dio, per gli uni, e dalla enorme potenza imperiale, per gli altri. «Romani ed ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti nelle parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo».
Levinas ha sostenuto che Simone Weil è ossessionata dall’ideale della chiarezza platonica. Quinzio ha voluto dire la stessa cosa sostenendo che il suo pensiero è dominato dall’idea greca di necessità. Ma non è greco il suo modo di guardare alla necessità, è ebraico.
Tuttavia, nonostante il riferimento a questioni discusse e ridiscusse in secoli di storia del pensiero dell’uomo, negli scritti di Simone Weil si apre la possibilità di qualcosa che è profondamente differente da ciò che si incontra «quaggiù» e questo «quaggiù» non è altro che la scorza, la minima parte visibile del nostro vivere e pensare. Nei Quaderni Weil ha scritto: «La funzione dell’intelligenza – della parte di noi che afferma e nega, che formula opinioni – è solamente la sottomissione. Tutto ciò che io concepisco come vero è meno vero di quelle cose di cui non posso concepire la verità, ma che amo. […] Non cogliere i misteri come verità, perché questo è impossibile, ma riconoscere la subordinazione di tutto ciò che cogliamo come verità a quei misteri che amiamo. L’intelligenza può riconoscere tale subordinazione provando che l’amore di questi misteri è la fonte di pensieri che essa può cogliere come verità». L’intelligenza dell’uomo contiene in se stessa l’allusione a ciò che la travalica e che, nonostante tutto, le rimane interamente estraneo.
Questo conflitto inconciliabile è stato mirabilmente sintetizzato da Maurice Blanchot. «Una cosa è possibile (e mi pare che la sperimentiamo continuamente): via via che il pensiero procede nell’espressione di se stesso, è sempre più indispensabile che mantenga in qualche punto di se stesso una riserva, un luogo che sia come una specie di non-pensiero, disabitato e inabitabile, per così dire un pensiero che non si lasci pensare». Simone Weil è stata la gelosa custode di questo pensiero che non si lascia pensare.