Indifferenza sociale e precarietà
La scomparsa del territorio
Negli ultimi anni tanto le dinamiche sociali che le produzioni artistiche sembrano ospitare una sola grande protagonista: l’indifferenza sociale. Estraneità nei confronti del mondo, nichilismo sociale, apatia, atti di vita meccanici e ripetitivi sembrano regnare indisturbati nelle più diffuse rappresentazioni della società contemporanea. Ma se c’è uniformità d’opinione rispetto a questo stato delle cose, lo stesso non può dirsi delle sue cause e soprattutto di che cosa significhi questo fenomeno. È perciò nel senso non tanto di una chiarificazione esaustiva, quanto piuttosto di una serie di suggestioni e spunti di riflessione che muovono queste pagine.
Il concetto di indifferenza
Prima di tutto il concetto di indifferenza. La ricerca psicologica che informa i costumi e il senso comune tende a esibire sempre più spesso l’indifferenza come una malattia morale e psicologica del soggetto, come uno stato della mente che soffoca qualsiasi tensione positiva o progetto rivolti oltre i confini dell’Io. L’indifferenza così intesa è, infatti, immaginata essere un totale distacco emotivo tra sé e gli altri, quindi con il tessuto sociale di appartenenza. L’effetto di questo tipo di lettura è stata l’emergenza sociale della figura dell’«indifferente», individuo ibrido e ambiguo che rappresenta l’anticamera della cronaca nera e il principale bersaglio del pubblico sdegno.
Come mostra Adriano Zamperini in un interessante saggio, l’indifferente è allora tale per contro-natura, il mostro che deve essere bandito perché responsabile dei più disparati e violenti gesti criminali. Una figura limite attorno alla quale ruota una costellazione di mostri pallidi, socialmente meno pericolosi, ma non per questo meno inquietanti: si hanno così la figura del passante che, di fronte al male, volge lo sguardo altrove; del narcisista tutto ripiegato sui propri bisogni; dell’asociale, del conformista piuttosto che dell’egoista incallito; infine dello stalker (chi mette in atto comportamenti molesti e continui, n.d.r.), figura al centro dell’agenda politica di questi giorni. L’indifferenza appare, in questo modo, a un tempo straniera e vicinissima all’esperienza quotidiana di tutti e di ciascuno; tanto distante dalla normalità della vita sociale quanto concreta e fin troppo presente nei suoi effetti perturbanti i valori della collettività. Un’indifferenza che si incarna nelle singole condotte asociali, risultando così fortemente individualizzata, relativa alle singole traiettorie di vita più o meno devianti, mero evento intrapsichico da correggere o curare tramite le istituzioni preposte a questo compito: insomma niente più che uno strumento di biasimo e condanna, o al massimo di catarsi sociale.
Ma in realtà le cose sono più complesse
La psicologia, con la sua interpretazione patologica dell’indifferenza, non solo appare perniciosa e fuorviante, ma soprattutto è incapace di dare risposte adeguate a problemi rispetto ai quali il suo sapere si pone invece come l’unico possibile. Di più, credo che in una certa misura la psicologizzazione della vita così prodotta abbia contribuito a determinare questo stato delle cose, ossia abbia trasformato una questione sociale in un problema morale. Ciò che intendo dire è che attraverso questa lettura dell’indifferenza è apparsa la forma pericolosa di una società terapeutica, che risolve il conflitto sociale nelle diverse sindromi di cui i soggetti in condizione di disagio sarebbero vittime. Un approfondito saggio di Frank Furedi descrive in maniera acuta e circostanziata questo proliferare dello psicologismo in tutte le pratiche di cura che si occupano del disagio sociale, dell’accompagnamento al lavoro e più in generale di tutti i problemi di interesse pubblico, le cui ricadute riguardano i destini dell’individuo. Se temi quali il disagio e l’indifferenza sociali si risolvono nel vocabolario della psicologia, allora abbiamo a che fare solamente con traumi e sindromi che riguardano esclusivamente la biografia di chi li vive, ed è compito delle agenzie educative, piuttosto che di cura mentale, occuparsene: le vicissitudini quotidiane in questo caso non rinviano più a una Storia. Le relazioni umane sono percepite come instabili per «natura», le cause avanzate sono di un genere quasi esoterico che fa riferimento a una non meglio precisata condizione intrapsichica: questo il polo negativo della faccenda.
Per quanto riguarda, invece, gli aspetti positivi (qui nel senso foucaultiano di «produttivi di effetti»), l’indifferenza è legata indissolubilmente all’idea e soprattutto al business attuali del benessere, dell’imperativo della cura di sé che sembra essere diventata negli ultimi anni una sorta di panacea di tutti i mali: il correlato opposto dell’indifferenza è fitness. Vuol dire che il problema dell’indifferenza diventa prima di tutto un problema di accesso ai consumi, per cui l’indifferente è una persona sostanzialmente «depressa», che non ha voglia di entrare in relazione con gli altri, né di divertirsi. Se l’indifferenza è un problema mentale, che si manifesta in un «disordine» del consumo, l’alternativa è quella di un corpo sano che funzioni come solido recettore di stimoli, perfettamente sintonizzato sulla festa del mercato con il suo ricettacolo di «servizi per il benessere della persona». Alla base della lotta all’indifferenza non vi sarebbe allora l’addestramento della capacità di critica del soggetto, né l’idea della ricostruzione delle perdute solidarietà sociali: il segreto è la formazione di un corpo in buona salute, versatile e dedito al consumo di qualsiasi genere di prodotto la cui etichetta sia quella del benessere.
Un soggetto anestetizzato
Credo allora che sia necessario deviare dai sentieri troppo usuali e riduttivi della psicologia per seguire il problema dell’indifferenza al livello della sua concreta materialità. Si può forse scoprire in questo modo che all’origine della polverizzazione del territorio sociale, con le sue mappe di condivisione e solidarietà, ci sono le attuali politiche del lavoro e i loro effetti di individualizzazione del rapporto contrattuale: i contratti a termine, le forme contrattuali a progetto, le prestazioni che non prevedono alcun contratto e tutte le forme del precariato in genere. È qui che si produce un tipo umano la cui visione del mondo non può che essere limitata alla periferia della propria esistenza. Se da una parte si vive oggi una condizione sociale dalla quale è impossibile non solo progettare la propria esistenza, ma anche solo farsi un’idea del mondo, dall’altra si è spesso canalizzati pedagogicamente verso passioni e identità fanatiche tratte dal mondo dei media piuttosto che dello sport e dello spettacolo.
Ciò che ne risulta è un soggetto anestetizzato, il quale vive nell’impossibilità di instaurare un minimo rapporto di senso, all’interno del proprio essere sociale, tra la dimensione particolare e quella pubblica: il lato politico della propria esistenza viene letteralmente sostituito da rivendicazioni e bisogni che possono realizzarsi nel solo spazio privato. Vengono meno tutti quegli elementi che facevano di una condizione storico-sociale un’esperienza collettiva e per questo comune: la condivisione degli spazi, degli orari di lavoro e dell’esperienza pratica immediata consentivano il formarsi di una storia di classe, materiale, a partire dalla quale diveniva possibile istruire la lotta e produrre una complessiva visione del mondo. Questa precarietà diffusa è ciò che getta il soggetto nell’indifferenza sociale, impoverendo le occasioni di aggregazione spontanea o organizzata, tali da generare identità collettive e movimenti di lotta duraturi nel tempo.
La somiglianza della mia esperienza con quella dell’altro è la sola cauzione per la reciproca riconoscibilità, altrimenti non è possibile interpretare il mondo, ma limitarsi a proiettare in esso e per esso una interpretazione di se stessi, la quale prende il posto della realtà. Del resto, laàfiducia nell’altro, come scrive Papi, si conquista solo quando «una soggettività etica riconosce nell’altro qualcosa che gli assomiglia, o addirittura, una promozione politica del medesimo orizzonte etico».
Per uscirne
È questa la situazione in cui versa la società attuale, dove l’indifferenza sociale fra gli individui che abitano lo stesso spazio socio-economico, lungi dall’essere una mancanza nell’ordine della morale consolidata, è un progetto di dominio politico che si regge su meccanismi ben oliati. Si tratta del tentativo di creare un tipo umano conforme alla norma e privo di quel senso critico che solo rende possibile la partecipazione attiva agli avvenimenti sociali: una combinazione perversa fra crisi dei valori, società terapeutica, distruzione del welfare e privatizzazione politica del soggetto.
Per uscirne non è allora possibile ricorrere a qualche sbrigativa metafisica della cittadinanza e della solidarietà, piuttosto che a interventi di sola educazione sociale, che pure possono essere utili a patto che siano iscritti all’interno di un progetto politico globale: che senso ha, di fronte a chi ha appena perso il lavoro, avviare un percorso di formazione per l’apprendimento di nuove competenze? Di fronte al dilagare della disoccupazione al posto del riconoscimento dei diritti si assiste infatti a un proliferare di progetti educativi, mentre al tempo stesso il numero delle patologie aumenta in misura esponenziale. Ma chi trae vantaggio da questo stato delle cose?
Perché a un precario
in cerca del riconoscimento dei propri diritti si offrono le sole strade del «ritorno a scuola» per il reinserimento al lavoro (si pensi all’ideologia sottile della formazione continua e permanente) quando va bene; oppure la costrizione a subire colloqui per l’elaborazione del profilo psicologico e di personalità, quando va peggio. Si tratta di procedure di individualizzazione del problema, cui spesso si accompagna la patologizzazione del soggetto, che producono l’effetto di occultarne la dimensione politica, collettiva e sociale. Riconsegnare questi fenomeni alla vita pubblica, perciò politica, significa allora rimettere in discussione, come alcuni movimenti stanno facendo ormai da più di un decennio e come la stessa crisi attuale dell’economia mondiale sta a dimostrare, l’euforia troppo disinvolta verso il mercato e le misure di flessibilizzazione del lavoro.
Concludendo, credo perciò che la questione dell’indifferenza vada cercata più nella direzione della moltitudine di forme di precarizzazione della vita individuale e sociale che in quella dei limiti del soggetto e delle sue qualità morali. Il precariato ha prodotto l’effetto, non da poco, di isolare ulteriormente i singoli individui ed estraniarli da una qualsiasi appartenenza sociale, sia essa di tipo partitico, associativo, istituzionale o spontanea; il discorso psicologico che ne riveste gli effetti ha trasformato la struttura politico-economica in fatalità e quindi gli oppressi in vittime, la giustizia in compassione, la lotta per i diritti in pericoloso arbitrio morale: una genealogia dell’indifferenza.
Adriano Fabris
ordinario filosofia morale
Univesità di Pisa