La misericordia trionferà sempre sul giudizio
«La palla che un giorno
lanciai alta in giardino,
non è mai più ricaduta».
Dylan Thomas
«Tutto vale la pena,
se l’anima non è piccola.
Dio diede al mare il pericolo e l’abisso,
ma è in lui che fece rispecchiare il cielo».
João Pessoa
La buona morte sotto processo
Mancava poco a mezzogiorno. La chiesa era ampia. Passando dal sole esterno all’interno, più che il salto di temperatura o di luce – le finestre erano ampie e la tinta chiara – si avvertiva lo sbalzo di umidità. Il pavimento, piuttosto sconnesso, trasudava. Non c’era da stupirsene, eravamo sulla riva di un lago. Fuori, sulla facciata in mattoni, un cartello in metallo, corroso dal sole e dal vento, dichiarava che nella chiesa vi erano opere di grandi pittori veneti, il motivo della nostra visita.
L’omelia del parroco
Entrammo con la sensazione, ambigua, di non sapere se ci dovevamo considerare intrusi o padroni; di certo non ci sentivamo ospiti. L’interno era dominato da un grande crocefisso scultoreo, di stile nordico, posto nell’abside, mentre sulla parete destra c’erano due quadri di ragguardevoli dimensioni, uno del Veronese e l’altro del Tintoretto. Cominciammo a girare, a guardarci attorno. Stava per iniziare la messa festiva, così decidemmo di fermarci.
Celebrava il parroco, un austero sessantenne, né alto, né magro, con un fastidioso problema di sciatalgia. Si muoveva lentamente, ma senza indulgere troppo. I gesti, se pure studiati, erano sbrigativi.
Nell’omelia è subito ricorso a un linguaggio astratto, come di chi bada soprattutto ai principi e calpesta il vissuto. Dopo aver concesso un indebito spazio per difendere i pronunciamenti della gerarchia cattolica a proposito del dibattito angoscioso sul caso Englaro, ha adoperato parole aspre e velenose verso chi accusa la chiesa di sistematica invasione nella sfera politica. Affermazioni già poco accettabili in una situazione di religione civile, stridenti e inquietanti, se pronunciate in ambito di fede. Infine, ha raccontato un episodio, che si ripete spesso nello scorrere quotidiano delle nostre vite.
C’è una suora di clausura molto anziana ricoverata in una clinica, diventata per molti una spoglia anticamera della morte. La religiosa prega Gesù perché venga presto a prenderla con sé, ma è rimproverata perché, le si dice, la vita è un dono e non si deve invocare la morte. San Paolo, rivolto al suo Signore, anelava, con parole entrate nella storia della mistica, a essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (Fil. 1,21). S. Teresa d’Avila affermava di sperare in una vita così alta che moriva perché non moriva.
La preghiera dell’anonima suora è forse più debole, più fiacca, forse, più che dagli slanci verso l’eterno, è alimentata dal desiderio di uscire dall’umiliazione presente.
Tuttavia non chiede di smettere di soffrire, domanda che il Signore la venga a prendere e trova, come risposta, parole ispirate all’inedita e imperante sacralizzazione del biologico, propria del cattolicesimo odierno.
Tenersi la vita che ti viene?
Nella sua spietatezza, la replica alle parole della suora svela quanto sta dietro l’attuale esaltazione della vita terrena, vista come dono fino all’ultimo: una radicale, per quanto dissimulata, sfiducia di poter essere, dopo la morte, accolti dall’abbraccio di Dio in virtù della resurrezione della carne. Il Vangelo si è diffuso nel mondo e nei secoli affermando che il dono definitivo è una vita che non ha fine, non quella di essere corrosa dalla morte.
Se il cristianesimo si trasforma in etica biologistica, muore nel presente. La riduzione della fede a morale è una forma di secolarizzazione mascherata sotto i panni della devozione. Da parte di chi la propone, l’intento più evidente è quello di ritagliarsi un angolino per avere ancora voce in capitolo nella cosa pubblica. La salvezza eterna della persona importa assai meno, su di essa non è dato di legiferare.
Anche se si decidesse di accettare le regole della partita in corso e si preferisse muoversi sul piano etico, bisognerebbe dire che si tratta di morale angusta e meschina.
La vita è davvero un dono di Dio, ma non è un dono ricattatorio: «Devi tenerti la vita che ti viene!». La vita che riceviamo, in tutti i suoi aspetti, è affidata alla nostra responsabilità, che vuol dire migliorarla (talenti da coltivare) e risponderne (vivere per gli altri, per lo sviluppo di umanità).
Chi crede in Dio si riconsegna, morendo, nelle sue mani. Deve preferire la morte al tradimento della vita, della verità, dell’altro: solo così testimonia (martire vuol dire testimone, non vittima) il valore del dono ricevuto. Con quella morte testimonia il valore della vita, che dunque non è da conservare sempre e comunque. Gesù in croce ne è il massimo segno: in quel caso, la morte è vita.
La morte buona e la vita gretta
Il credente preferisce morire piuttosto che uccidere. Molti hanno saputo vivere questa «eutanasia», la morte buona, che svuota guerra e violenza, per costruire la pace. C’è dunque una morte che afferma il valore della vita.
Al contrario, chi, a spese del fratello, preferisce uccidere invece di morire pecca di «accanimento terapeutico», perché vuole vivere a ogni costo. La morte del fratello è la sua feroce medicina: mors tua, vita mea.
La Chiesa ha il dovere di affermare che tante, tantissime devono essere le cautele davanti al mistero del dono ricevuto, ma deve pure dire, in maniera definitiva, che difendere la propria vita con la morte altrui non è rispetto del dono ricevuto. Anche l’altro ha ricevuto il dono che si vuol distruggere.
Come mai l’uccisione di altri – soprattutto per motivi pubblici: pena di morte, guerra, dominio – ha trovato nella storia cristiana tante giustificazioni, scuse, persino esaltazioni, più che l’uccisione di se stessi? È sorprendente. Solo oggi il suicida, fino a ieri maledetto, trova misericordia e ha funerale religioso.
La Chiesa indichi e ripeta, con coraggio, la giusta norma: poi ognuno camminerà fino a dove può. La misericordia trionferà sempre sul giudizio. L’accanimento terapeutico, invece, tiene con zanne serrate il dono che chiede di essere speso, oppure di tornare, con i frutti che ha potuto dare, e con l’invocazione della sua povertà, nel cuore della piena vita universale, che tanta parte dell’umanità chiama Dio.
«Non abbiamo più una società cristiana. Non viviamo in una società fondata naturalmente sui valori cristiani. Stiamo in una situazione secolarizzata e che lo sarà sempre di più. Per questo dobbiamo camminare insieme alle persone. Ritmare il proprio passo dentro i passi delle varie realtà, nelle quali ci imbattiamo e cercare – con grande rispetto, grande attenzione, grande umiltà – di portare il messaggio cristiano».
In queste lucide parole dell’arcivescovo di Pisa, Alessandro Plotti, si possono trovare gli elementi essenziali della sfida che la Chiesa si trova ad affrontare: la situazione sociale secolarizzata, la capacità di «camminare insieme», l’esigenza di annunciare il vangelo.
Una chiesa che comanda o una chiesa che ascolta?
Osservando bene, sono gli snodi che già il Concilio Vaticano II aveva saputo cogliere con sapiente discernimento, non solo nell’apposita costituzione su La chiesa nel mondo contemporaneo, ma nell’intero impianto delle discussioni e dei testi prodotti.
Se certe domande, oggi, non sono recepite all’interno della Chiesa, esse troveranno risposte altrove. Ho il sospetto, invece, che la Chiesa abbia paura di una società in cui è esplosa la soggettività di massa, una società in cui si sono andati affermando il gusto, l’abitudine, il diritto di impostare la propria esistenza secondo la propria coscienza e le proprie convinzioni.
Le persone alla Chiesa chiedono più testimonianza che comandi dal pulpito, come scrive Mauro Laconi «invece di pretendere che il mondo ascolti la Chiesa, questa dovrebbe, prima di tutto, rimettersi in ascolto della parola di Gesù». Più che il dilemma politico di una Chiesa orientata ad appoggiare chi opportunisticamente la sostiene, si avverte spesso nei cattolici di base il senso quasi di uno smarrimento, di un abbandono. È come se fra la Chiesa di vertice e l’Ecclesia dei fedeli che s’interrogano, dei preti impegnati in prima linea, di chi vive in prossimità con la sofferenza, ci sia ormai un’incomunicabilità, che trova scampo soltanto in rari momenti di comprensione umana, fra gerarchie e poveri sacerdoti di periferia a contatto col dolore, con la mutevolezza dei rapporti sociali e il peccato (che è l’iniquità e l’ingiustizia). Ci s’ignora, non ci si capisce. C’è chi paventa, addirittura, un tipo di scisma sommerso.
La stessa gerarchia ecclesiastica ammette esplicitamente che «il cristianesimo ha difficoltà a farsi capire nel mondo odierno», ma contemporaneamente si ripresenta con l’intransigenza dei «principi non negoziabili» e con il suo sistema concettuale, lontano dal linguaggio e dal dialogo col mondo moderno.
Libertà e resistenza
Cosa si può fare?
Non lasciarsi espropriare della libertà del cristiano intesa in senso alto. Ora non credo possibile una mediazione. Almeno in Italia. Per dirla con il cardinal Martini: questo è il tempo di resistere. Ciò significa che non dobbiamo lasciarci espropriare da altri. Si tratta di un lato difensivo ma fondamentale. Dall’altra parte la prospettiva non è poi così tanto oscura: l’attuale posizione (politico/pastorale) della Chiesa non reggerà a lungo e si sgretolerà lentamente, visto che la storia sta andando in altra direzione.
Subire il cambiamento per la forza dei fatti, è ben altra cosa che governarlo in virtù della propria libertà spirituale. Quest’ultima, però, sembra ridotta al lumicino.
L’avvenire di Dio
Se dalle mie parole dovesse apparire un sospetto di amarezza, è l’amarezza di chi dice a se stesso: noi cristiani non possiamo non ascoltare il mondo, non ascoltare l’umanità e non rispondere loro.
La speranza, intesa nel suo senso più alto, è rivolta all’avvenire di Dio; essa non riguarda la riforma delle istituzioni, neppure di quelle ecclesiali. Le istituzioni hanno delle logiche – come diceva Ivan Illich – che sono insuperabili. Per questo è impossibile liberarcene del tutto senza provocare conseguenze gravi.
Il vangelo sine glossa è leggibile nella vita di Francesco di Assisi, non in quella di un politico, di un medico, di un professore, di un vescovo o di un papa. Può essere che esistano medici santi, o vescovi e papi santi, ma nessuno di essi lo è in ragione della carica che ricopre.