Il fardello dell’uomo stanco

di Realdi Giovanni

Numerare rende liberi

La Graziella è la proprietaria del camietto delle verdure che staziona per tutta l’estate in piazza. È un essere quasi misterioso: una specie di folletto anziano sbucato dagli orti, costituito solo da nervi e muscoli. Osserva dal basso noi clienti con un mezzo sorriso complice e poi descrive la sua mercanzia: albicocche come caramelle, pere come pasticcini. Il collega, forse compagno, sicuramente di levatacce, ne segue le movenze con l’occhio annacquato: sa che è solo un vassallo nel feudo verde. La Graziella si è dotata quest’anno di uno strumento invero piuttosto diffuso tra gli esercizi commerciali: il numerino. Arrotolati nella loro chiocciola rossa sopraelevata, i numeri dormienti attendono di eseguire la propria funzione apportatrice di civiltà: dare ordine alle siorette in arrivo. Così anch’io, barbuta massaia, mi accodo all’enumerazione: l’intervallo che mi è concesso, tra il «numero servito» e il mio, mi permette di elucubrare su quali e quanti prodotti agricoli debba fare miei. Oggi, zucchine, insalata riccia, nocipesche (che per le spaccarelle è presto).

La dinamica del numerino è curiosa: c’è quella che la conosce bene e allora agisce in un silenzio complice e sottomesso; c’è quella che si accosta alle cassette ignara e attende di infilarsi tra di noi, rimbrottata dalle compagne; c’è chi dice: devo prendere solo una cassa di meloni e pretende di fare senza. Bisbigli e mugugni. Il numerino appare realmente lo strumento d’ordine, la Legge Uguale Per Tutti, a cui tutte e tutti si sottomettono, il Leviatano delle compere.

Osservo assorto il radicchio, là in alto: sarà mica stagione? Vicino a me una signora appariscente: ha un vestito di tela leggera arancione, grandi occhiali da sole anni sessanta presi probabilmente in prestito alla figlia, la quale glieli aveva altrettanto probabilmente rubati da un cassetto di memorie. Viene salutata dai feudatari con sonore approvazioni: buongiorno dottoressa. Un medico? Una farmacista in pensione? L’impiego del sostantivo «dottoressa» al femminile mi sembra dotato di un campo limitato, al contrario del corrispondente maschile, buono anche per avvocati, commercialisti, dirigenti vari.

La dottoressa ha pressia. Sorride sorniona alla necessità civile del numerino, cui deve cedere, e poi con la voce ruvida delle sigarette commenta tronfia: con tutti ‘sti numeri mi par di essere un’ebrea.

L’insostenibile leggerezza della testa

Nella mia testa di accorato insegnante di storia saetta la reazione: sì, diglielo a quelli che non sono tornati. Eppure: nulla. Mi volto dall’altra. E poi sbircio: lei forse mi tiene presente, forse no. Fa una di quelle smorfie che sembrano un sorriso, ma nascono solo da qualche strano movimento di quando la lingua cerca qualcosa tra i molari. Forse problemi con la dentiera.

Reagire? Indignarsi? Per la battutaccia? Per il versaccio? Per la Politica della Sicurezza Del Nostro Governo? Per l’accanimento terapeutico operato in Afghanistan e Iraq? Per i diritti umani negati in Cina?

In realtà avverto il peso di avere un punto di vista. Di ragionare sulla realtà. Perché il ragionamento avviene sempre troppo tardi, a cose fatte. Come la nottola di Minerva, mammifero notturno invocato da Hegel quale metafora della filosofia: essa non ha da modificare la realtà, ma deve solo giustificarla, comprenderne l’intelaiatura razionale e descriverla. Il pipistrello, l’allocco, la civetta non amano la luce del sole e attendono il tramonto per librarsi in volo in cerca di cibo, a giorno concluso. La reazione all’ottusità della signora è arrivata, dopo, a cose fatte, a porte chiuse, nella torre.

Con Hegel, contro Hegel: Karl Marx richiama all’ordine i proletari, perché c’è da rimettere la dialettica a camminare sui piedi, dopo che il venerabile maestro l’aveva costretta a stare in bilico sulla testa. E con Marx dopo Marx, le schiere di intellettuali interventisti, agitati, indignati appunto. Scartato infine Marx, rimane oggi, mi sembra, il moltiplicarsi infinito delle opinioni, ognuna indignata per quella che l’ha preceduta o per quello che l’ha esposta.

Ma c’è da sgualcire il gilè

1983. Vasco Rossi ha trentun anni e pretende mite qui e ora una vita spericolata, dal palco di Sanremo: le mani nelle tasche dei pantaloni chiari, riassume il grido di una generazione nauseata da due decenni di lotta più o meno armata, in nome delle varie rivoluzioni. Tappa finale è l’autodistruzione alcolica del Roxy Bar, fatto per chi non dorme mai, per chi se ne frega di tutto, sii… Ci aveva avvertito da una posizione incontestabile: ognuno è perso dentro i fatti suoi, lui per primo.

Venticinque anni dopo, Francesco Tricarico, trentasette anni, ancora da Sanremo: io/ voglio una vita tranquilla/ perché è da quando son nato che son spericolato/ io/ voglio una vita serena/ perché è da quando son nato che è disperata, spericolata/ però libera, verde, sconfinata.

In un quarto di secolo si distendono la richiesta di liberazione e la richiesta di fermare la liberazione e il cerchio pare chiudersi. La libertà c’è, la spericolatezza pure, e anche la disperazione. Datemi tranquillità.

Richiesta legittima. Tricarico è già spiegazzato di suo, non teme come Guccini (Via Paolo Fabbri, 43; 1976: Guccini ha trentasei anni) di sciuparsi il vestito, perché adesso anche le mamme sanno che si gira senza pieghe e senza drammi con la camicia fuori dalle braghe.

La domanda «Che fare?» rimane sospesa con il fumo azzurrino nell’aria sopra il tavolo al quale ho convocato questi tre cantautori: quando se la pongono hanno più o meno la mia età di adesso e come me mi appaiono incastrati tra il pesante riflettere di un mondo adulto – che ancora non pare accoglierli – e la spinta vitalistica al mettersi in gioco, ma rimanendo fedeli a se stessi.

Potrebbero farmelo notare: circondando la boa dei trentacinque anni, non si può che essere adulti. A me pare una consapevolezza che, quasi inaugurata dal dantesco mezzo del cammin, è stata buona sino agli anni cinquanta del secolo passato: poi la ricerca estenuata e sacrosanta di liberazione, ancorata al benessere economico, ha fatto sì che la gioventù rimanesse un mito da custodire come in una teca al museo. I trentacinque anni (ma anche i trenta) non sono più stati un’età adulta, ma l’epoca di chi desidera – o è costretto a – rimanere qualcosa come un post-adolescente d’annata.

Mi chiedo che cosa sia questa vita tranquilla e vorrei chiedermelo senza sottoporre a giudizio questa richiesta. Cioè senza interpretare il ruolo di quello che conosce un poco le «giovani generazioni» e conclude: tanto belli, ma…

Ecco: questo «ma». Qui si agita la nottola, si libera con uno strattone, si alza in volo e cerca il verme da tendere al cielo lontano, sempre che di vermi si cibino le nottole. In altre parole, cerchiamo, e poi troviamo, magari scritta da qualche parte, una spiegazione a quanto ci sta di fronte: rileviamo un disagio, ne descriviamo la fenomenologia, e proponiamo diagnosi e, talvolta, cura. Poi torniamo ai fatti nostri, cioè al silenzio dopo la domanda «che fare». La risposta possibile è relegata a un melanconico e bloccato già-fatto oppure regalata ancora una volta a chi ha, come si dice, le leve del potere, che preferisce non condividere.

La fine del potere

R. ha fatto l’operaio tutta la vita. Ora è dimagrito ulteriormente, tanto che la testa sembra più grande: gli occhi somigliano alle antenne di una lumaca, gli rimangono il mezzo più efficace per interagire col mondo, ora che è mezzo sordo e che fatica a parlare. Andare a far visita alla F. e R. significa correre il rischio di transitare in una terra straniera: quando lui dice qualcosa, è meglio che ci sia lei vicino, a far la traduzione simultanea. La F. è una centrale energetica nucleare: con la bicicletta percorre Padova, da Salboro a Chiesanuova, da Forcellini a San Girolamo. Parenti, nevodi, funerali, pantaloni da rifargli l’orlo, zavaji. Raccoglie con cura la frase smozzicata di R.: era diretta a me, vorrebbe avere la tua età, dice. Poi facciamo il giro delle stanze e mi mostra le fotografie: i matrimoni, qualche laurea, i bambini, papa Benedetto, papa Paolo – la sera ghe digo le orasion. R. per muoversi fa dei piccoli passettini incerti, aggrappandosi ad appigli sicuri, sempre gli stessi, la porta qui, il termosifoni là. La F. lo segue con lo sguardo mentre si prende la sua seconda sigaretta del giorno: ne ha diritto a tre, il pacchetto è da lei affettuosamente nascosto. Sorride mentre lui se la gode, tenuta elegantemente tra le dita grosse di lavoratore. C’è tutta una forza incredibile nell’affetto con cui lo accompagna con gli occhi chiari, nei quali non è mai apparsa alcuna traccia di malizia, di giudizio. La F. mi ha visto che pesavo qualche chilo, e con me i miei fratelli: è una quercia secolare nel parco della nostra vita, qualcosa che è sempre là, tu puoi andare e tornare, lei rimane. Poi mi dà l’insalata di riso da portare a casa – insiste -, rimpompandola con qualche wurstel e pezzo di formaggio.

La nottola è lontana, inutile e confusa, manda i suoi segnali radar in attesa che rimbalzino su qualche cosa di consistente. Vicina rimane vivida, solare e potente, l’unica possibilità vera: chinarsi sul respiro delle donne e degli uomini.