Difendere la Costituzione per tutelare la democrazia
A partire dai soggetti più deboli
La nostra Costituzione è una Carta assai avanzata, costruita con intelligenza per durare nel tempo. Di particolare rilievo è la sua prima parte, la cosiddetta «Costituzione dei diritti», che assicura la tutela dei diritti fondamentali della persona attraverso meccanismi di garanzia perfettamente adeguati allo scopo e che non devono essere toccati. Ma anche la parte relativa all’organizzazione dei poteri va conservata nei suoi aspetti essenziali, perché c’è una coerenza profonda nel disegno costituzionale: la parte organizzativa ha quelle determinate caratteristiche perché è servente rispetto alla garanzia dei diritti. Modificare in profondità la forma di governo, senza tener conto dell’equilibrio interno alla Carta, potrebbe comportare effetti gravi e pericolosi. Personalmente, ritengo possibili modifiche puntuali, relative ad esempio a un bicameralismo paritario che non ha dato buona prova di sé.
Quanto agli eventuali punti «deboli», essi coincidono con le previsioni che stabiliscono maggioranze qualificate in funzione di garanzia, oggi parzialmente sterilizzate dagli effetti maggioritari del sistema elettorale delle Camere. Pensiamo, ad esempio, all’elezione del Presidente della Repubblica: l’art. 83, terzo comma, della Costituzione prevede che venga eletto a scrutinio segreto a maggioranza dei due terzi del Parlamento in seduta comune, mentre dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. È chiara la ragione di questa norma: sul nome del Capo dello Stato, organo di garanzia costituzionale, è necessario che si formi un’ampia maggioranza, ben al di là di quella politica contingente che sostiene l’esecutivo. Se non si raggiunge la maggioranza, assai ampia, dei due terzi, è necessaria almeno quella assoluta (la metà più uno dei componenti dell’assemblea elettiva). Oggi, in presenza di un sistema elettorale caratterizzato dal premio di maggioranza, per cui alla coalizione o alla lista più votata è assicurata comunque la maggioranza dei seggi in Parlamento, è necessario innalzare il quorum per l’elezione presidenziale, se si vuole conservare all’organo Presidente della Repubblica la posizione di neutralità e di garanzia che il nostro sistema parlamentare gli assegna.
Istituzioni internazionali e nuovi equilibri politici e sociali
Oggi alcuni processi economici e alcune decisioni internazionali hanno determinato nuovi equilibri a livello politico e a livello sociale. Non c’è dubbio che molte decisioni, soprattutto in ambito economico, vengano assunte in sedi esterne al circuito politico-rappresentativo, in sedi prive di legittimazione democratica. Mi riferisco a istituzioni economiche internazionali come WTO, FMI, Banca mondiale, ecc. La sensazione è che i governi statali spesso siano costretti a subire scelte adottate altrove e che fatichino a esercitare anche soltanto un controllo effettivo su di esse. Si tratta di un problema formidabile, poiché il carattere essenziale degli ordinamenti democratici si colloca proprio nel binomio potere-responsabilità: un’istituzione può esercitare un determinato potere se e in quanto sia poi chiamata a risponderne a coloro da cui tale potere deriva (la responsabilità del governo nei confronti del Parlamento e del corpo elettorale). Queste istituzioni internazionali e sovranazionali, invece, hanno poteri immensi, capaci di incidere in maniera profonda sulla vita delle persone; ma a chi rispondono delle loro scelte e dei guasti eventualmente provocati?
Altra tematica di estrema gravità è quella del riapparire di discriminazioni che credevamo ormai consegnate alla storia. Mi riferisco, nel caso italiano, alle discriminazioni nei confronti degli stranieri non comunitari, ma anche comunitari: si pensi alla sconcertante vicenda della rilevazione delle impronte digitali ai minori rom, pur con gli aggiustamenti introdotti di fronte alle giuste rimostranze europee. Un provvedimento pensato e progettato per una determinata etnia, considerata pericolosa in quanto tale. Una concezione che non ha nulla a che fare con il pluralismo culturale, religioso, linguistico, etnico, tipico delle società democratiche e che ha invece molto a che fare con le tragiche esperienze totalitarie novecentesche.
Ancora, voglio ricordare l’introduzione nell’ordinamento penale – oltretutto, con decreto-legge – di un’inedita aggravante generale di clandestinità: la pena è aumentata «se il fatto è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale». L’aggravante differenzia la misura della pena non sulla qualità dell’azione, ma sulla base di chi la commette. La medesima condotta criminale, le medesime modalità di esecuzione del reato (qualsiasi reato, doloso o colposo) vengono punite più gravemente se a commetterle è un soggetto irregolarmente presente sul territorio italiano. Si tratta di un’evidente violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, espressivo del principio di eguale trattamento di fronte alla legge penale, e di una violazione, di nuovo, su base etnica. Si colpisce qui lo status della persona, in quanto figura sociale marginale, da respingere e da punire in primo luogo proprio per la sua marginalità.
Pregiudizio e diffidenza sulle donne
Parlando di fasce discriminate non posso tacere un altro tema importante: nella società italiana, le competenze culturali, professionali e lavorative delle donne ancora non trovano una traduzione adeguata in ambito politico. Ciò, a mio avviso, è particolarmente grave nella fase storica che stiamo vivendo, caratterizzata da veri e propri attacchi ai diritti conquistati dalle donne, soprattutto nelle questioni che attengono alla sfera della riproduzione e della signoria sul proprio corpo.
Emblematica, sotto questo aspetto, è la legge n. 40 del 2004 sulla procreazione assistita, che consiste in una serie di divieti e di limitazioni ispirati dalla diffidenza nei confronti delle donne, viste come potenziali «nemiche» del loro ipotetico figlio.
Donne narcisiste, perché vogliono a tutti i costi procrerare; donne narcisiste, perché vogliono essere libere di abortire.
Questa è l’ideologia che si sta affermando, che emerge con chiarezza dalla legge n. 40 e dal dibattito sviluppatosi negli ultimi anni intorno alle cosiddette «carenze applicative» della legge n. 194 del 1978 (cui si dovrebbe porre rimedio attraverso una «dissuasione» attiva nei confronti delle donne che non intendono portare avanti una gravidanza, preferibilmente affidata, secondo alcuni, ad associazioni di volontariato, rigorosamente antiabortiste, cui concedere ampi spazi di collaborazione con i consultori pubblici).
L’idea di fondo è la medesima: la decisione di avere un figlio è cosa troppo seria e importante per lasciarla all’autonoma determinazione femminile.
Giuditta Brunelli
costituzionalista e docente di diritto costituzionale
Università di Ferrara