Panini, coca, acqua, birra
Padova
Gli scompartimenti dell’InterCity Notte si riempivano pigramente, senza la solita calca. Accanto a me un giovane marocchino messaggiava col telefonino e un tipo dai crespi capelli biondi in tuta da ginnastica stava dormendo. Una voce roca andava su e giù per le carrozze ancor prima che il treno ripartisse dalla stazione.
«Panini coca acqua birraaa! Panini coca acqua birraaa!»
Una sagoma furtiva passò in corridoio lanciando occhiate, contrattando sui prezzi, per sgusciare oltre. Il marocchino lo guardò attraverso il vetro della porta e si alzò.«Una coca».
L’oscurità e la nebbia avvolgevano la pianura. Whalid lavorava a Padova in una fabbrica di biciclette, in venti dietro a una catena. Si riteneva fortunato, orgoglioso di aver trovato qualcosa che gli piacesse fare.
«Riconosco le mie bici, capisci? Una bici ha un po’ di anima, non è come fare tondelli di plastica.»
A Padova aveva il lavoro, a Ferrara la casa e a Bologna gli amici. Viveva lungo la linea del treno. Un giovane controllore arrivò davanti a noi, controllò i biglietti e sbuffò ansioso.
«Avete visto passare un ragazzo con sacchi bianchi e panieri di plastica?»
Whalid e io scrollammo la testa, lui si schiacciò il berretto sulla fronte e bestemmiò a bassa voce.
«Se lo piglio… abbiamo il risto-bar a bordo e quel tipo è abusivo. Grazie comunque, arrivederci».
Il giovane in divisa sembrava confuso. Doveva avvertire subito la Polfer? Aveva motivo di preoccuparsi perché era neoassunto e i responsabili erano categorici riguardo ai fenomeni che andavano cancellati. In primis gli abusivi. Girò i tacchi assorto e poco dopo i freni del treno fischiarono. Il tipo in tuta da ginnastica si svegliò e Whalid mi salutò battendosi la mano sul petto, scomparve tirando su il bavero nel trambusto del saliscendi.
Bologna
«Panini coca acqua birraaa! Panini coca acqua birraaa!»
Echeggiava nell’oscurità quella litania. L’uomo in tuta spense la luce per riprendere a dormire e anch’io ci provavo. In dormiveglia captavo frammenti di parole. A Bologna salirono due coppie che riaccesero la luce nello scompartimento. I ragazzi portavano gli zaini, le ragazze si guardavano intorno con sguardo esausto. Ammassarono i bagagli tirando fuori panini, limonata e una bottiglia di vodka. Erano una doppia coppia di polacchi e il più loquace con la faccia rotonda diceva di chiamarsi Riccardo. Il tipo in tuta si svegliò visibilmente arrabbiato e loro gli chiesero:
«Di dove sei?»
«Jugoslavo».
Riccardo riempì un bicchiere di limonata con vodka e glielo porse. Le ragazze e l’amico presero sonno mentre Riccardo continuava a parlare e a riempire bicchieri ai compagni di viaggio. Lui e l’amico facevano i carpentieri a Budrio e andavano con le fidanzate a trovare degli amici a Roma. Erano solo dispiaciuti che il nuovo Papa non fosse polacco.
Firenze
Il treno traversò l’Appennino e poi si fermò, c’era da cambiare la motrice. Scesi come altri a sgranchire le gambe, chi fumava, chi stava al cellulare, chi parlottava lamentandosi del ritardo che già si stava accumulando.
«Panini coca acqua birraaa! Panini coca acqua birraaa!»
La sagoma tarchiata che si portava dietro quella voce roca mi superò per risalire due vagoni avanti. D’un tratto si diffuse un vociare, «si parte», e ognuno riprese il suo posto. Lo scompartimento era avvolto da un soffocante calore e sulla soglia comparve un africano che controllava i numeri dei posti riservati, finché trovò il suo.
«Quel posto è mio»
Quando fece per sistemare i suoi bagagli capì che Riccardo non aveva alcuna voglia di cedergli il posto.
«Hei hei, io da qua non sposta. Va bene?»
«No dai devo dormire, ho pagato.»
«Chiama la polizia se vuoi ma io da qua non sposta. Capisci? Siamo bianchi!»
Digrignò il polacco sbarrando gli occhi. L’africano lo fissò un istante, lasciò perdere e andò a stendersi nel corridoio semideserto sopportando, nella sua stessa lingua, la cantilena tubiforme di due tipe vestite di niente che parlavano smaltandosi le unghie. Dopo aver vinto la suaàpersonale battaglia, Riccardo allargò il sorriso e fece cenno al suo amico di chiudere la portella. Mi defilai andando al finestrino vicino alla toilette. Accesi una sigaretta. Al mio fianco comparve l’abusivo dai sacchi di plastica pieni di bibite e panini. Li depose.
«Hai una sigaretta?»
Mentre cominciavamo a parlare vidi avvicinarsi, lento, un vecchio controllore.
«Attento, quello ti sta cercando.»
Dissi. Il ragazzo guardò impassibile il controllore, che ormai l’aveva in pugno.
«Biglietti prego».
Tirai fuori il mio, ma il signore in divisa non mi degnò di uno sguardo.
«Non lo tengo il biglietto, lo sa».
«Ma come, tu mi vuoi rovinare, ce l’hai con me… te l’ho detto mille volte che almeno il Bologna-Firenze lo devo fare».
«I soldi del biglietto non li voglio dare alle ferrovie, piuttosto li do a lei. Se lo faccio ci vado a rimettere. Li voglio dare a lei i soldi, le do i numeri, un terno secco».
«Sciocchezze, mò ti faccio fare il biglietto».
Disse armeggiando la macchinetta che portava a tracolla.
«Ma che vuol dire, io sto lavorando».
«E io cosa credi stia facendo?»
«Anche lei, lo so, ma tengo due bambini e…»
«… con questo sistema guadagni più di me».
«No non dica così, lei ha una busta paga, un’assicurazione, una pensione e quando sta male la pagano, può curarsi… io non tengo niente, oltre a questa faccia che va in giro finché salute me lo permette».
Il controllore lo guardava spostando il berretto per grattarsi la nuca.
«Dovresti trovarti un lavoro onesto».
«Fate presto a parlare… eppure siete napulitano comm’a me. Io me ne salgo in treno dottò, lontano dalle grane e faccio un servizio alla gente. Ma perché ce l’avete tanto con me? «
«Certe cose l’azienda non le tollera più, capisci Gennà? Se si viene a sapere che non ti faccio pagare la multa e il biglietto, mi fanno rapporto. Le cose stanno cambiando in fretta e a bordo abbiamo il servizio risto-bar, pagano un appalto per fare ristorazione».
«Dottò, gli appalti li vincono chi i soldi li tiene già, io se pago il biglietto son trenta euro che non posso più dare a mio figlio. Sta in prima media e vuò o cellulare! E se non li accontenti non ti salutano neanche quando torni a casa».
Termini
L’andatura del treno diminuiva avvicinandosi alla fermata e la conversazione si stava animando, poi il controllore alzò lo sguardo lungo il corridoio e vide arrivare il giovane collega a grandi falcate.
«Via ragazzi. Gennà, io ho fatto quello che potevo».
«Arrivederci dottò, mò m’arrangio».
Afferrò i suoi sacchi di plastica e sgusciò oltre la porta scorrevole per andare a rintanarsi in un angolo di quel treno che, tanto, conosceva.